Abel, il pistolero di Baricco che legge Hume

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«Se metti una mano sul fuoco, ti brucerai.»

Chi non ha mai sentito queste parole quando era piccolə?

È la classica ammonizione che sentiamo rivolgere aə figlə, osservando nei loro occhi lo sguardo desideroso di chi invece ha proprio voglia di allungare la mano verso le fiamme, per scoprire personalmente come funziona il mondo.

Ma le parole deə “grandə” spesso non bastano a fermare la loro curiosità e solo dopo aver messo la mano sul fuoco ed essersi scottatə, staranno bene attentə a non ripetere l’esperimento perché avranno ricondotto la scottatura al contatto con il fuoco.

Per la sopravvivenza umana (e animale), l’esperienza è dunque un elemento fondamentale, un principio epistemico talmente importante da generare una credenza impropria, ossia l’idea che gli eventi collegati da una relazione di causalità si ripetano sempre nello stesso modo: osservo che da A segue B e ne deduco che da A conseguirà sempre B.

Insomma, la causalità diventa una proprietà intrinseca delle cose anziché il frutto di rapporti esperienziali tra due eventi che abbiamo osservato, anche una volta sola: quante volte, in fondo, abbiamo dovuto mettere la mano sul fuoco per assicurarci che provocasse davvero la scottatura?

Magari una sola, eppure ci siamo convintə che la relazione causale tra questi eventi sia una legge.

Nel dibattito metafisico, il tema della causalità viene introdotto da Platone, secondo il quale le idee non sono altro che principi, appunto causali, in virtù dei quali il mondo si struttura così com’è (1). Per Aristotele, la causa più che valore ontologico ha un valore epistemico: le quattro cause (materiale, formale, efficiente e finale) rispondono a domande che ci poniamo per conoscere qualcosa completamente (2).

Pur nella differenza di concezioni e di usi, la base comune di queste teorie è che ci debba essere un’aitia (dal greco αἴτιον, causa o spiegazione) attraverso cui il mondo si struttura e dunque si ordina.

Non ci viene dato in dotazione un comodo libretto d’istruzioni per capire la realtà, quindi costruiamo una categoria, la causalità, per riflettere sull’origine di ciò che ci circonda e sulla nostra stessa esistenza; infatti, se per indagare la natura delle cose devo conoscerne la causa, per gettare luce sulla misteriosa ontologia dell’essere umano devo scoprire chi è il suo creatore, demiurgo, Dio, o entità trascendente di turno.

Dunque, oltre che un principio epistemico, la causalità nasce da un’esigenza emotiva-psicologica di dare un significato all’esistenza identificandone l’artefice, dimenticandosi che il principio con cui si cerca di riorganizzare il mondo è una categoria inventata ad hoc dall’umanità.

Ci penserà il buon vecchio Hume a decostruire questo caposaldo del pensiero filosofico.

Analizzando le proprietà degli oggetti, Hume innanzitutto chiarisce che la causalità non è una proprietà intrinseca all’idea di oggetto (3), come ad esempio la qualità, ma essa esiste nella relazione tra le cose.

Il fatto che il fuoco causi una scottatura se la mano si avvicina troppo non è proprio della natura del fuoco, ma si basa sul nostro vissuto; siamo noi a supporre che, anche in assenza della nostra percezione, l’evento si verificherebbe sempre allo stesso modo.

Attribuiamo una connessione necessaria (4) alla relazione di contiguità e priorità tra due oggetti (il fuoco precede la scottatura), rendendo così la causalità una legge naturale indipendente dall’esperienza sensibile. 

Ma da dove nasce l’esigenza della causalità?

Per Hume deriva dall’idea filosofica secondo cui le cose, non potendo venire dal nulla, da qualcosa devono essere generate.

Tuttavia, dimostrare l’impossibilità dell’assenza di un principio non basta a dimostrarne l’esistenza (5).

Dunque, per Hume la causalità esiste come principio esperienziale-psicologico: si osserva ripetutamente che due eventi sono contigui e si inferisce ingiustamente che l’esistenza dell’evento che abbiamo visto dopo derivi dall’evento precedente, la sua causa (6).

L’abitudine è appunto la credenza originata dalla ripetizione a partire dalla quale abbiamo elevato la causalità a legge universale.

Per usare un linguaggio meno preciso di quello humiano, ma sicuramente più poetico:

«il fatto che a un fenomeno ne seguisse un altro non voleva dire granché, poteva anche succedere migliaia di volte ma nessuno poteva dire che sarebbe andata così anche la prossima. […] Accadevano cose, tutto lì, e lo smarrimento degli umani inclinava al pietoso stratagemma di regolare il traffico con questa storia che ci fossero delle cause e degli effetti, e che le prime generassero i secondi. […] Quando leggemmo questo passo, mi sembrò di intravedere per un attimo un’esistenza molto più leggera, fluttuante e senza direzione, un modo squisito di esistere» (7).

Tra David Hume e Alessandro Baricco ci sono parecchi anni di differenza, ma si sa, i temi della filosofia sono pieni di corsi e ricorsi e travalicano gli ambienti accademici, finendo spesso nelle pagine dei romanzi. In particolare, nel suo ultimo romanzo, Abel, Baricco ci racconta la storia di un pistolero che volta le spalle al principio di causalità.

La vita del pistolero è rischiosa, specie se si abbandona la logica della causalità che è la chiave della sopravvivenza in uno scontro a fuoco: chi spara per primo vive e l’avversario lento muore.

Eppure, Abel vuole sposare una concezione diversa dell’universo e diventa un contadino proprio per abbracciare i ritmi della natura, in cui all’idea di successione cronologica/logica di eventi si sostituisce l’idea della compenetrazione degli accadimenti, indipendenti dall’interpretazione umana.

È il mondo descritto dalla Bruja, la strega del far west che incarna la possibilità di un altro modo di pensare, un fluire in cui non c’è passato, presente o futuro nella classica percezione umana:

«Il nostro mondo sacro, disse la Bruja. Corre fino all’orizzonte, e ancora corre al di là. Mondi fa, i nostri padri hanno imparato a leggerlo, e da allora noi sappiamo cosa dice. Loro lasciarono detto che sarebbe stato un errore prenderlo come una legge, perché non ci sono leggi, o come un verdetto, perchè non ci sono verdetti. Dissero che era piuttosto un canto. Aggiunsero che non aveva scopo se non risuonare, e in alcune memorie più antiche e impenetrabili lasciarono l’insegnamento ultimo, secondo il quale il testo non è finito, e a scriverlo, ogni giorno e ogni notte, sono i passi degli uomini» (8). 

Per quanto suggestiva, la possibilità di abbracciare questa visione è anche spaventosa: un mondo caotico, privo di un disegno preciso.

Proprio per salvarci dallo spaesamento, la filosofia, in particolare Aristotele, ha creato dei criteri per organizzare il reale:

«Lui è stato uno dei primi a immaginare che qualcosa di ultimo dimori in ogni cosa reale, quindi anche in noi – qualcosa di indivisibile e perfetto, un punto di necessità assoluta. Dove lui fu più sofisticato di altri fu nel chiamare quel punto sostanza – una parola che non c’era – ammettendo in qualche modo che quel punto non esisteva come esistono una mela, o i tuoni, o una mano, ma esisteva come mossa mentale, cioè era un luogo che non si poteva toccare ma si poteva pensare. Così organizzò l’intero mondo – salvandolo dal caos – intorno alla fragilità di un pensiero. Cosa per cui non smetteremo, diceva il Maestro, di ringraziarlo e maledirlo» (9).

Ringraziarlo per aver creato un mondo dotato di ordine e scopo, e nel contempo maledirlo perché il razionalismo occidentale si è imposto come unico modo di guardare la realtà dato che, pur nelle divergenze d’opinione, è da Aristotele che il dibattito filosofico trae le categorie attraverso cui parlare del mondo.

Non che sia sbagliato, ma respirare un’aria diversa ogni tanto fa bene.

Per questo serve tornare a Hume e ricordarsi cos’è davvero il principio di causalità, e a questo serve Abel, da lui stesso definito “un western metafisico”.

NOTA

Alla fine di Abel, Baricco consiglia una serie di testi che gli sono serviti come fonte d’ispirazione. Ho letto Canti indiani del Nord-America (10) e lascio qui tre poesie molto belle: uno spiraglio di quel mondo oltre la soglia del razionalismo occidentale in cui è la natura e non l’uomo ad essere protagonista:

[CANTO VIII]

In mezzo al mare 

nell’ampio spazio del mare

là io m’assido.

[LAGGIU’]

Laggiù al limite della terra

ha posto

la mia meta.

[UN CESPUGLIO]

Un cespuglio

se ne sta seduto

sotto un albero

e canta.

BIBLIOGRAFIA

  1. Platone, Opere complete – vol. I. Eutifrone, Apologia di Socrate, Critone, Fedone, trad. di M. Gigante, M. Valgimigli, Biblioteca Universale Laterza,  Roma-Bari 2003. (nello specifico si veda Fedone, 100a). 
  2. Aristotele, Metafisica, trad. di G. Reale, Bompiani, Milano 2004.
  3. David Hume, Trattato sulla natura umana, trad. di P. Guglielmoni, Bompiani, Milano 2001, p. 169.
  4. Ivi, p. 173.
  5. Ivi, pp. 175 e ss.
  6. Ivi, p. 191 e ss.
  7. Alessandro Baricco, Abel, Feltrinelli, Milano, 2023, pp. 94-95
  8. Ivi, p. 46.
  9. Ivi, p. 132
  10. Canti indiani del Nord-America, a cura di Aldo Celli, Sansoni, Firenze 1959.