Nell’allegoria della biga alata contenuta nel Fedro di Platone, l’anima umana è rappresentata come un’auriga guidata da due cavalli: uno indomabile, simbolo del desiderio, e uno obbediente, simbolo di volontà e razionalità. La bipartizione ipotizzata dal filosofo greco ha segnato la storia di buona parte del pensiero occidentale, generando svariate antinomie ad essa collegate: anima/corpo, spirito/materia, ragione/sentimento. L’affettività umana è stata così vittima di una discriminazione che spesso l’ha portata ad essere definita fonte di turbamento e perdita temporanea della ragione.
Il sentimento è stato successivamente rivalutato da chi, come i filosofi Pascal e Heidegger, ha saputo riconoscere la rilevanza dell’esperienza sensibile nell’ambito della conoscenza. La stessa neuroscienza ha studiato la connessione tra emozioni e razionalità, evidenziando quanto le prime rappresentino un valido trampolino di lancio verso apprendimento, cambiamento e crescita personale.
La cultura del sospetto nei confronti della sfera emozionale ha portato oggi ad effetti preoccupanti, riconoscibili particolarmente in dinamiche di negazione, simulazione/ dissimulazione e strumentalizzazione delle emozioni. Questi approcci ci impediscono di riconoscere il nostro sentire per quello che è, ossia parte integrante del nostro processo di sviluppo. Scindiamo le emozioni tra positive e negative, perdendone le molteplici sfumature e spesso diventandone vittime quando cerchiamo di sopprimerle.
Il rischio?
Un cosiddetto sequestro o ristagno dell’emozione dovuto alla riluttanza o paura, di esprimerla, comprenderla, comunicarla e viverla come parte rilevante del proprio sé. Stiamo parlando di quello che il filosofo contemporaneo Umberto Galimberti definisce “analfabetismo emotivo“, incapacità caratteristica soprattutto degli adolescenti del nostro secolo di riconoscere i propri sentimenti, stilizzandoli dietro le emoticon.
Non solo: subentra qui un’ulteriore scissione: le emozioni sono riconosciute come reazioni psicofisiologiche passeggere, mentre i sentimenti come vera esperienza delle emozioni stesse, il loro aspetto “consapevole”. In questo modo lo specchio moderno ci restituisce una forte proliferazione emozionale e un curioso inaridimento sentimentale: l’emozione shock, forte, veloce, fuggente la vince su un sentimento riflessivo e durevole. Ad esempio, nel caso della tristezza, riconosciuta come emozione negativa, si ricorre prontamente al suo trattamento tramite psicofarmaci. Non ci sono più capacità e volontà di attesa, tutto deve essere categorizzato, reso visibile o cancellato se non gradito o riconosciuto come negativo. Si perde quella connessione tra emozione e valore studiata dalla fenomenologia novecentesca del pensatore austriaco Husserl, seguito dall’allieva tedesca Edith Stein. Proprio quest’ultima spiega come l’anima umana prenda coscienza di sé attraverso un filtro, ovvero il suo sentimento nei confronti dei valori del mondo esterno.
L’incapacità di riconoscere e comunicare le emozioni ci blocca anche su uno dei fondamenti della nostra esistenza umana: la relazione. Essa permette all’individuo di costruire progressivamente se stesso distinguendosi dall’altro, ma comunicando e interagendo con lui, in una sinergia di crescita e arricchimento.
Indispensabile risulta dunque la capacità di comunicare, tanto esplicitamente tramite il dialogo, quanto implicitamente tramite quello che il filosofo francese Ricoeur chiama, alla fine del Novecento, “ascolto empatico”. Per il pensatore, l’uomo non può esistere indipendentemente dalle sue relazioni nel mondo, si muove sempre verso un incontro con l’altro, anche involontariamente.
L’empatia (termine introdotto nell’Ottocento per parlare dell’esperienza e della fruizione artistica), è proprio la capacità di immedesimarsi senza necessità di comunicazione verbale. Edith Stein ne aveva parlato come di una “trasposizione interiore“, che permette di conoscere la soggettività dell’altro, ascoltando il suo modo di essere e cogliendone le sfumature caratterizzanti.
Puzza di Romanticismo questa prospettiva?
Probabilmente sì, ma solo fino al 2005. In quell’anno, infatti, all’università di Parma, il professore Giacomo Rizzolatti e la sua equipe hanno avuto modo di scoprire gli straordinari neuroni specchio, responsabili della nostra capacità di “comprendere” la mente altrui e leggerne le intenzioni, percependo i suoi sentimenti e introiettandoli.
Oggi, però, alla luce anche dei fatti di cronaca più recenti, è normale domandarsi: nell’epoca in cui sono le emoji a esprimere i nostri stati interiori, si riesce ancora a “sentire” qualcosa?
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