Abbiamo introdotto le premesse (bioetica laica e bioetica cattolica in questo articolo; status dell’embrione in quest’altro ); ora possiamo discutere di un argomento che non smetterà mai di infuocare gli animi: IVG (interruzione volontaria di gravidanza), comunemente conosciuta come aborto. Presupposto del dibattito è che si tratti di un’azione volontaria; stiamo quindi escludendo situazioni quali l’aborto spontaneo.
Perché l’aborto è considerato immorale?
Stando alla dottrina della sacralità della vita, essa costituisce il bene fondamentale, la condizione stessa della persona umana ed è inviolabile. In quest’ottica, detta anche personalista, essendo la vita donum et proprietas del Creatore, ne consegue che sia per principio sottratta alle scelte individuali. È un compito, prima che una decisione, e in quanto tale l’uomo non ne può disporre e deve, a prescindere, accoglierla e salvaguardarla. Il principio di inviolabilità, dunque, si manifesta in due accezioni, positiva e negativa: in positivo comporta l’accoglienza e il rispetto della vita; in negativo il rifiuto della sua menomazione o soppressione.
Ne deriva il divieto di interventi che non siano a beneficio del feto e l’aborto è automaticamente considerato un non-beneficio: ritenerlo trattabile come una persona chiama in causa il dovere di vivere piuttosto che la possibilità.
Le perplessità degli antiabortisti circa il permesso all’IVG ruotano frequentemente attorno al tema della selezione: decidere di sopprimere quella che secondo loro è già una vita in atto equivarrebbe a porre un discrimine arbitrario tra chi riceve la possibilità di vivere e chi no. La madre si farebbe quindi giudice di una decisione che non ha il diritto di prendere: nel caso, ad esempio, di un’interruzione di gravidanza optata conseguentemente alla diagnosi di una malattia genetica, si tratterebbe di una selezione disumana in nome della ricerca di una forma di vita perfetta.
Viene espresso il timore di una pressione medica e sociale sulla donna in gravidanza, che la spingerebbe a scegliere la pratica abortiva in nome di una cultura materialistica ed edonistica, che rifiuterebbe il nuovo nato se non possedesse determinate qualità intellettuali o estetiche, le quali non rispondono al criterio laico di una “vita di qualità”.
Il disegno contemplato è dunque quello della legge di natura, spesso elevata a criterio metodologico di un’etica della vita consona al messaggio cristiano, dove “naturale” diventa sinonimo di “buono” sul piano valoriale.
In questo quadro, nessun uomo può arrogarsi il diritto di decidere della non-vita di un altro futuro essere vivente.
Dove risiede il nucleo della controversia?
Così come nessun uomo, nel nostro caso nessuna futura madre, può arrogarsi il diritto di decidere della sorte del futuro figlio che porta in grembo, allo stesso modo la morale laica pone il suo interrogativo: come può un essere umano arrogarsi il diritto di decidere che la scelta di un altro è sbagliata? Come si può stabilire con sicurezza che una donna che opti per un’interruzione di gravidanza stia sbagliando?
Il nucleo del problema risiede nel “peso” che le due diverse concezioni danno al feto: se la bioetica cattolica ritiene che i suoi diritti i medesimi di quelli di un umano già nato, la bioetica laica tende ad assegnare un peso maggiore ai diritti di chi già vive, quindi a quelli della madre: Singer ribatte che «un X potenziale non ha tutti i diritti di X […]. Perché mai una persona solo potenziale dovrebbe avere i diritti di una persona?».
Viene quindi privilegiato il valore di un individuo la cui vita è già in atto, rispetto a quello di una vita che ancora non esiste, soprattutto nel caso in cui la messa in atto di una vita potenziale vada a ledere l’autonomia di una persona esistente: è proprio il caso di una gravidanza indesiderata. In questo caso, non sussiste l’obbligo morale di far iniziare una nuova esistenza.
Dworkin – filosofo e giurista statunitense – era promotore di una prospettiva che concepisce la vita come progetto individuale, realizzato secondo i criteri valoriali del singolo: l’autonomia è non solo scelta libera, ma anche coerente rispetto ad un progetto di vita. Essa consente di realizzare e tutelare l’integrità della persona grazie all’autocreazione di un tale progetto, del quale quale siamo sovrani. Se portare a termine una gravidanza – o quella determinata gravidanza – non rientrasse nel progetto di vita della donna o della coppia, è indebita ogni imposizione altrui. Se la coppia non ha intenzione di portare a termine tale progetto o ritiene di non poter allevare un bambino, affetto o meno da una determinata patologia, quale che sia la loro motivazione e pur non potendo loro opporsi a privati e legittimi giudizi morali dissenzienti, nessuna autorità esterna può arrogarsi il diritto di imporre loro una decisione contraria alla loro volontà e al loro interesse, che nient’altro sono se non il mezzo per ottenere il loro benessere e la loro felicità.
L’idea sottesa al ragionamento che fa prevalere i diritti materni rispetto a quelli fetali non risiede soltanto nell’idea che un essere potenziale non possa essere giudicato titolare di diritti, né tanto sulla criticata visione dell’embrione come un “mucchietto di cellule” verso cui non sembra esprimersi alcuna sensibilità. Ogni individuo, anche favorevole all’aborto, si rende empaticamente conto che in esso risiede la possibilità di un essere e proprio per questo si presuppone la volontà di farlo nascere in un ambiente dove è desiderato.
L’idea di fondo è piuttosto l’evidenza che «mentre noi possiamo sbagliare nelle nostre convinzioni sui valori, non necessariamente ne consegue che qualcun altro, che ha ragione di credere che stiamo incorrendo in un errore, possa venire e migliorare la mia vita dirigendola al posto mio, in base alla giusta considerazione dei valori. Al contrario, nessuna vita migliora se condotta dall’esterno in base a valori che la persona non approva. La mia vita migliora solo se sono io a condurla dall’interno, secondo le mie convinzioni sui valori» (W. Kymlicka).
In “conclusione”…
Non pare esserci un punto di incontro, perché i presupposti valoriali sono radicalmente opposti e inconciliabili.
Eppure, quantomeno dal punto di vista normativo – e in questo caso ci riferiamo alla scelta tra mantenere o abolire la legge 194 – non sembra plausibile utilizzare come criterio quello della sacralità della vita, che obbligherebbe tutta la popolazione nazionale femminile (e l’altro/a membro/a della coppia) a rinunciare alla possibilità abortiva: limiterebbe la libertà di scelta e l’autonomia di coloro che non riconoscono come valide le motivazioni addotte dai personalisti e non possono essere costretti a farlo.
Solo gli argomenti di carattere razionale possano decidere in un conflitto di posizioni etiche differenti.
FONTI
Borsellino P., Bioetica tra autonomia e diritto, Zadig, 1999.
Kymlicka W., Liberalism and Communitarism, in «Canadian Journal oh Philosophy», citato in. Charlesworth, Bioethics in a Liberal Society, Cambridge University Press, 1993.
Singer P., Etica pratica, citato in Fornero, Bioetica cattolica e bioetica laica, Mondadori, Milano 2009.
Tettamanzi D., Nuova bioetica cristiana, Piemme, Milano 2000.
Pic credits: https://www.flickr.com/photos/66944824@N05/14226776278
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