Se avete trascorso un po’ del vostro tempo su internet nell’ultima settimana, probabilmente siete venuti in qualche modo a conoscenza di un nuovo spot di Gillette che sta suscitando polemiche, minacce di boicottaggio, discussioni e prese di posizione anche piuttosto estreme (per verificare, vi basterà controllare nei commenti sotto al video in questione su You Tube).
Lo spot, inserito in una più ampia campagna intitolata The best men can be (il meglio che un uomo può essere), si propone di invitare gli uomini a riflettere ed agire contro la diffusione della mascolinità tossica, affinché certe prassi vengano messe in discussione e si interrompa il meccanismo con le quali queste vengono trasmesse alle nuove generazioni come stili di vita non solo accettabili, ma addirittura auspicabili.
Come è prevedibile, un messaggio di questo tipo non può non suscitare una certa dose di reazioni avverse.
Quando si chiede alle persone di modificare il proprio comportamento, si incontra inevitabilmente la resistenza di chi non ha nessuna intenzione di cambiare o di fare autocritica.
Tuttavia, nonostante lo spot faccia esplicitamente riferimento a realtà come il movimento Me Too, anche negli ambienti femministi la campagna è stata accolta con un certo scetticismo e qualche alzata di sopracciglio.
Si è tornati a parlare di “femminismo pop” ed è stata nuovamente sollevata una questione che da qualche anno si fa sempre più pressante e divisiva:
può il femminismo essere “pop” senza perdersi e diventare una parodia di se stesso?
Possono prodotti chiaramente commerciali come questo spot, una maglietta con la scritta “future is female” o un album di Beyoncé aiutare la causa del femminismo contemporaneo o rappresentano invece delle pericolose banalizzazioni che finiranno per snaturare questo movimento, le sue battaglie e le sue rivendicazioni?
È possibile includere un ampio numero di persone nel femminismo senza che questo perda di vista se stesso e diventi, in fin dei conti, una versione talmente pallida di sé da non avere più alcuna capacità di incidere sulla società e modificarne i ruoli di potere?
Questa tesi è certamente sostenuta da una parte considerevole delle femministe di oggi, tra le quali basti citare come esempio la statunitense Jessa Crispin e il suo recente Why I Am Not a Feminist: a Feminist Manifesto, testo in cui l’autrice polemizza con vigore proprio contro l’idea che il femminismo possa essere una visione del mondo a portata della maggioranza, denunciando il pericolo che, nel tentativo di far diventare tutti femministi, si finisca per rinunciare pezzo per pezzo ad ogni caposaldo del femminismo, rendendolo un movimento talmente mainstream da essere irrilevante.
Secondo la Crispin, il femminismo avrebbe un’irriducibile qualità radicale e rivoluzionaria che lo renderebbe intrinsecamente non accessibile a tutti.
È chiaro che il femminismo oggi non è una visione del mondo condivisa dalla maggioranza delle persone, e la reazione allo spot Gillette ne è l’ennesima dimostrazione. Tuttavia, se quanto affermato da Crispin fosse vero, penso che saremmo tutti nei guai.
In un contesto democratico, infatti, affermare che una certa visione della società non potrà (e non dovrà) mai essere condivisa dalla maggioranza, significa infatti accettare (e forse auspicare) che quella visione non diventi mai realtà. Per quanto teoreticamente raffinata e filosoficamente all’avanguardia, infatti, una teoria che non è in grado di raggiungere e convincere la maggioranza delle persone è una teoria destinata a rimanere per sempre rinchiusa nei libri o tra i discorsi di chi se ne intende, e mai diventare cultura dominante, prassi, legge, comportamento comune.
Le grandi battaglie del femminismo del XX secolo sono state vinte soltanto quando e nella misura in cui ad un certo punto sono state condivise da una quantità sufficientemente grande di persone da diventare volontà popolare, da consentire il raggiungimento della maggioranza in un referendum o da essere percepite dai partiti politici come battaglie convenienti dal punto di vista elettorale, campagne politiche capaci di concentrare voti e consenso attorno a chi se ne fa portavoce, scontri che potevano essere vinti.
Ciò significa che nel cosiddetto “femminismo pop” non si nasconda affatto il rischio di una banalizzazione o di una snaturazione del movimento e delle sue tematiche?
Certamente no. Il rischio c’è eccome, perché divulgare un messaggio complesso non è mai un’impresa semplice o che possa essere presa alla leggera. Tradurre un raffinato prodotto teorico in un formato che sia accessibile anche da chi non ha tempo, energie o la preparazione culturale per accedervi è sempre una sfida che comporta molti rischi, ma non per questo bisogna rinunciare in partenza.
Anche la scienza è ricca di contenuti altamente specifici e di difficile comprensione per i non addetti ai lavori, ma non per questo si rinuncia a divulgarla e la si rinchiude in un contesto elitario dove solo chi già la conosce può parlarne ed apprenderne i nuovi sviluppi.
Anche il coinvolgimento dell’aspetto economico non deve e non può diventare un alibi per liquidare tentativi come quello fatto da Gillette o da altri marchi. È evidente che una pubblicità ha anche e soprattutto lo scopo di vendere un prodotto, ma ciò non è necessariamente in contraddizione con la possibilità di mandare un messaggio importante.
Se si teme una banalizzazione o una travisazione del messaggio femminista, dovrebbe essere proprio questo il criterio per giudicare se il prodotto che abbiamo davanti è valido oppure fuorviante. L’aspettativa di un guadagno economico o in popolarità non è intrinsecamente in antitesi con la trasmissione di un contenuto, e può diventare anzi un mezzo per spingere quel messaggio un po’ più un là, dove altrimenti difficilmente sarebbe arrivato.
Usare cautela quindi, ma non censurare ogni tentativo di divulgazione come svilente o fuorviante. Chi spera che le battaglie femministe abbiano successo non può non augurarsi che esse siano condivise da un sempre crescente numero di persone. Riconoscere che non tutti possono o vogliono leggere Judith Butler è soltanto una questione di pragmatismo, ed è necessario ricordarsi anche che il mondo è fatto di sfumature: chi può dire che la visione di uno spot come quello di Gillette oggi non porti qualcuno a leggere un libro o frequentare un seminario sulla mascolinità tossica domani? Uno spot pubblicitario, una canzone, una campagna social possono contribuire ad accendere una conversazione che altrimenti non avrebbe avuto luogo, a far nascere un interesse che avrebbe potuto non svilupparsi mai.
Dopotutto, questo è esattamente ciò che proviamo a fare qui a Filosofemme. Siamo un gruppo di donne appassionate di filosofia che pensano sia bellissimo discuterne con chi già la conosce e la ama, ma che trovano ancora più soddisfazione al pensiero di poterla condividere con chi magari l’ha sempre guardata con diffidenza o con un po’ di paura, con chi avrebbe voluto conoscerla meglio ma fino ad oggi non ha trovato una mano tesa che lo aiutasse ad avvicinarsi. Noi, umilmente, vorremmo provare ad essere quella mano.
Fonti
Crispin J., Why I Am Not a Feminist: a Feminist Manifesto, Melville House Publishing, Brooklyn, 2017.
Photo credit: screenshot from Gillette’s short film “We Believe: the best men can be”
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