Le prime cause di danno da procreazione si sono presentate nella legislazione statunitense e nei paesi anglofoni, a partire dagli anni Sessanta.
Negli Stati Uniti, l’idea sottesa alla nozione di “danno da procreazione” è che mettere al mondo un figlio in condizioni meno che soddisfacenti in termini di qualità della vita significa danneggiarlo o fargli un torto.
Nella common law americana, l’eventualità di danno da procreazione comprende due differenti tipologie: i casi di wrongful birth e quelli di wrongful life, rispettivamente di “nascita indesiderata” e di “vita indesiderata”.
Le azioni di wrongful birth fanno parte della comune prassi giuridica, che spesso le accoglie, e sono quelle intentate dai genitori del concepito, i quali accusano un danno subìto di cui è responsabile il medico o la struttura sanitaria che ospita la gestante.
Questa categoria si divide a sua volta nelle sottocategorie di wrongful conception, quando i genitori di un bambino non pianificato agiscono contro il medico per ottenere un risarcimento dei danni subiti a causa di un’errata applicazione di strumenti anticoncezionali; wrongful pregnancy, quando il risarcimento viene richiesto per fallita identificazione dello stato di gravidanza entro i termini legali utili ad abortire; e wrongful diagnosis, nel caso in cui l’invocazione al risarcimento si riconduca a danni subiti da un omesso esame diagnostico o da un errore che ha causato la perdita della possibilità di aborto.
Ambigue sono le azioni di wrongful life, in cui è il nato a intentare una causa contro il medico con il supporto genitoriale o contro i genitori stessi, al fine che gli venga concesso risarcimento per la lesione subita nell’essere affetto da una determinata patologia, lesione che viene a coincidere con l’atto della nascita.
Il problema che si crea in questo caso riguarda non il favorire la nascita, ma proteggere la non nascita.
Il punto di complessità delle cause di danno da procreazione, infatti, sta nella perfetta coincidenza tra i due atti: l’azione che causa il danno al figlio è l’atto stesso della nascita. I genitori non avrebbero potuto infatti evitare quello che il figlio accusa come danno se non evitando che nascesse.
Ciò implica che venga messa in discussione la tradizionale e dottrinale visione della vita umana come bene assoluto e supremo, indisponibile e inviolabile. Per questo motivo i casi di danno da procreazione hanno scatenato controversie tanto in ambito giudiziario quanto in ambito morale: i giuristi hanno dovuto affrontare tematiche che non sono ritenute giudicabili in termini legislativi.
L’errore tecnico del medico configura qui una fattispecie di fronte a cui le tradizionali categorie di pensiero del giurista si dimostrano inappropriate.
Spesso, i tribunali hanno escluso l’ipotesi di risarcimento al concepito, in quanto ritengono che l’interesse a non nascere non possa essere un pregiudizio e quindi tutelabile giuridicamente: significherebbe riconoscere il diritto del concepito a non essere nato.
Sotto il profilo giuridico emerge la difficoltà di qualificare l’atto generativo come un illecito.
La legittimità del risarcimento da parte del medico, per violazione del dovere di informazione, è riconosciuta solo in caso di wrongful birth nei confronti dei genitori: hanno infatti subìto un danno biologico, dando alla luce un figlio non sano, e patrimoniale, dal momento che dovranno provvedere al mantenimento di un figlio che a sua volta non potrà, in futuro, contribuire con il proprio apporto allo status economico del nucleo familiare. Viene quindi tutelata la libertà di scelta della madre, ma un diritto di non nascere esercitato dal concepito è incompatibile con l’ordinamento giuridico, quantomeno con quello italiano.
Ci si trova di fronte a una sorta di “schizofrenia giuridica”: l’accusa di aver preservato una vita non desiderata viene accolta solo se avanzata dai genitori, mentre il bambino non può far valere come proprie le stesse pretese, perché si reputa che la prima richiesta sia basata su ragioni di ordine patrimoniale, sulla violazione del diritto alla salute e della sua libertà di autodeterminazione; la seconda, invece, implica la lesione di un bene giuridico quale la vita stessa.
Dove sta il problema?
Il ragionamento parte dal presupposto che non si possa pensare che la vita sia un danno anziché un dono.
Eppure, se io ritengo che le mie condizioni di vita non mi consentano di viverla secondo il mio criterio in maniera dignitosa e felice, dovrebbe spettare a me il diritto di rivendicarla come un danno. Si tratta, quindi, di porre la vita umana come un bene a disposizione della volontà individuale, non più assoluto e da difendere a prescindere in quanto sacro, ma relativo all’autodeterminazione del singolo.
La difficoltà concreta resta quella di monetizzare il valore di una vita non auspicata là dove si chiedesse un risarcimento.
Termineremo il capitolo sul danno da procreazione osservando alcuni casi giuridici: alla prossima puntata di RubriEtica!
FONTI
Steinbock B., The Logical Case of Wrongful Life, «Hasting Center Report».
Gambino G., La diagnosi prenatale. Scienza etica e diritto a confronto, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2003.
Bacchini F., Il diritto di non esistere, McGraw-Hill, Milano 2002.Picker E., Il danno della vita, Giuffrè, Milano 2004.
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