Riflessioni sulla giustizia sociale: la restorative justice

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giustizia sociale articolo di ilaria

Con l’aumento dell’esclusione e dell’ineguaglianza, dobbiamo rafforzare il nostro impegno per garantire che tutte le persone, senza discriminazione alcuna, abbiano accesso alle opportunità di miglioramento della vita propria e di quella altrui.

Ban Ki-moon, Segretario Generale delle Nazioni Unite

Il 20 febbraio si celebra la Giornata Mondiale della Giustizia Sociale, istituita dalle Nazioni Unite nel 2007 con la Risoluzione A/RES/62/10. È una giornata simbolica, che diventa occasione per puntare l’attenzione su diversi problemi che ancora oggi attanagliano la comunità internazionale, come il diritto al cibo.

L’ONU, infatti, incoraggia a sostenere l’eliminazione della povertà, la promozione dell’impiego e del lavoro dignitoso, l’uguaglianza di genere e l’accesso al benessere sociale e alla giustizia per tutti.

Una delle applicazioni di giustizia sociale a livello internazionale è l’adozione, nel 2008, da parte dell’OIL (Organizzazione Internazionale del Lavoro) della Dichiarazione della Giustizia Sociale per una Globalizzazione Giusta: nonostante gli sforzi, la parità di trattamento tra lavoratori e la non discriminazione sessuale sono obiettivi ancora lontani, anche nei Paesi occidentali.

L’ONU riconosce che lo sviluppo sociale ha come punto di origine la giustizia, la solidarietà, l’uguaglianza tra i Paesi e all’interno di ciascuno di essi. Si tratta, dunque, di un problema di politica estera ma anche interna.


I Paesi non dovrebbero vivere uno squilibrio economico esagerato, non dovrebbero essere guidati da governi ingiusti, protagonisti di massacri e ognuno dovrebbe mirare alla creazione di una società per tutti, che si basa sulla giustizia e sul rispetto dei diritti umani.

È un mondo idilliaco?
Non importa se la realtà ci racconta altro: l’importante è che questi ideali siano fissati e diventino guida per azioni politiche, economiche, sociali.

Osservando più da vicino la macro categoria della giustizia sociale, ci accorgiamo della sua complessità: tra le questioni che racchiude, anche quelle legate alla transizione da un regime dittatoriale a una nuova democrazia. Si tratta di smantellare governi violenti che hanno perpetrato atrocità di massa, eliminato diritti fondamentali e acconsentito alle nefandezze più violente.

Vi siete mai chiesti come sia possibile fare giustizia lì dove la magistratura risulta compromessa perché la stessa dei regimi che è chiamata a giudicare?
Come instaurare democrazia, se il popolo non si fida del governo ma neppure del vicino di casa che potrebbe aver partecipato alle squadre della morte torturando senza pietà?
Come sia possibile ricostruire giustizia, uguaglianza, solidarietà, benessere per tutta la società?


È la situazione che vive, ad esempio, l’Argentina negli anni Ottanta.

Raùl Alfonsìn il 15 dicembre 1983 istituisce la Comisìon nacional para la desaparicìon de personas per investigare sul destino dei desaparecidos e su altre violazioni dei diritti umani commesse durante la dittatura militare dal 1976 al 1983. È inaugurata, così, la prima Commissione verità e riconciliazione, espressione di un emergente paradigma di giustizia: la giustizia di riparazione in opposizione alla giustizia retributiva (1).

Le Commissioni hanno il compito di raccontare tutta la verità, raccogliere prove su quanto è accaduto, rompere la cultura del silenzio, creare spazi di ascolto tra vittime e carnefici, fare i conti con il passato. L’esperienza che ha avuto maggiore risonanza a livello mondiale è sicuramente la Commissione verità e riconciliazione sudafricana, che ha operato tra il marzo 1960 e il dicembre 1993, smascherando i crimini consumati sotto il regime di apartheid.

Ma, quali sono i limiti del sistema tradizionale che inducono alla ricerca di un alternativo sistema di giustizia in situazioni di violenza estrema?

Schematicamente, possiamo rintracciarne 4:

  • i regimi protagonisti di atrocità di massa sono, solitamente, organizzati in una struttura gerarchica in cui le responsabilità si confondono, si intersecano. Non è facile, allora, attribuire la colpa ad un soggetto singolo. Si assiste a uno squilibrio costante tra la domanda di giustizia e l’accertamento della responsabilità;
  • la giustizia tradizionale non soddisfa la piena domanda di verità delle vittime, perché molto di quanto accaduto viene tralasciato, dando rilievo alla semplice concatenazione causale degli eventi e tralasciando sentimenti, ricordi, che costituiscono parti integranti della verità. Il diritto penale non riesce a farsi carico dei vissuti di sofferenza, delle lacerazioni emotive;
  • i processi giudiziari hanno un ruolo importante nell’integrazione del crimine nella storia del Paese, ma spesso generano effetti collaterali forti, come estremismi e razionalismi. E in aggiunta, essi nascono come stabilizzatori, o meglio, come deterrente al ripetersi di crimini simili ma, in realtà, non fanno altro che aumentare il solco tra vittime e carnefici;
  • la retributive justice ruota intorno al momento autoritario della pena, esibendo una funzione repressiva che non dà, il più delle volte, reali possibilità di riscatto e reintegrazione del condannato in società. La più efficace apertura alla rieducazione del condannato, promossa dalla restorative justice, invece, è compatibile con un ideale democratico che grida il rispetto della dignità umana, qualunque ne sia la storia e la condizione;
  • il sistema tradizionale non valorizza le vittime. Governi protagonisti di gravi violazioni dei diritti umani utilizzano la tortura come strumento di potere: la tortura è un reato specifico che spazza via l’identità della persona, riducendola a un deserto esistenziale. La vittima di tortura ha delle peculiarità e ha bisogno del riconoscimento pubblico del male per tornare a vivere davvero. Ecco, dunque, una delle funzioni più importanti delle Commissioni verità e riconciliazione: favorire il racconto delle violenze da parte degli offensori. Un racconto pubblico che diventa intrinsecamente terapeutico per l’intera società, perché la vittima ritrova conferma di se stessa come essere umano, scrollandosi di dosso quell’auto-svalutazione che la ossessiona e il colpevole ha la possibilità di essere ascoltato, “pentirsi” davanti a tutti delle proprie azioni.

Il problema cruciale, in questi contesti, sta nella necessità di imparare a vivere di nuovo tutti insieme. Ritrovare benessere e giustizia sociale.

Scoprire i vari profili della responsabilità, portare a galla la verità e porre la giusta attenzione alle vittime sono richieste che solo un paradigma flessibile può risolvere.

La riconciliazione tra parti antagoniste non è semplicemente un momento politico, ma si tratta di una vera rigenerazione sociale e morale. Necessario è promuovere realtà di condivisione e suturare un trauma che la letteratura specifica definisce psico-sociale(2): l’erosione delle relazioni sociali è, infatti, il più grave effetto delle atrocità collettive sul benessere della società.

Curare il singolo, ma anche la società nel suo complesso: il piano individuale e quello collettivo si fondono.

Le Commissioni, organizzando sedute pubbliche in cui i protagonisti raccontano violenze subite e violenze perpetrate, incentivando la società a denunciare i colpevoli, studiando gli avvenimenti per rintracciare le responsabilità e offrendo supporto psicologico personalizzato, mirano a questo: costruire nuovi spazi comuni, ristabilire un ordine morale mediante la riorganizzazione dei valori, delle istituzioni e della politica, ricostruire nuova giustizia sociale.


(1) È la Comisiòn nacional para la verdad y reconciliaciòn istituita nel 1990 dal presidente Aylwin in Cile a sigillare la denominazione che ha avuto fortuna fino ad oggi.

(2) Cfr. Adriano Zamperini, Giustizia e benessere, Comunità offese e pratiche di riconciliazione, Risentimento, perdono e riconciliazione nelle relazioni sociali, Roma, Carocci, 2008.