Esiste un legame tra le tecniche di diagnosi prenatale e il rischio di una selezione arbitraria delle nascite?
È diffusa l’idea erronea che la diagnosi prenatale abbia come esplicito obiettivo quello della selezione degli embrioni sani e dell’eliminazione degli embrioni “difettosi” e che di conseguenza l’atteggiamento dei genitori che si avvalgono degli strumenti che essa fornisce sia mosso dal desiderio di una “discendenza perfetta”: un “figlio perfetto”, in apparenza (1), non può che generare a sua volta individui geneticamente sani e desiderabili.
Se è apprezzabile la motivazione terapeutica ed è considerata lecita l’intenzione di usufruirne come mezzo conoscitivo sulla salute del feto, non lo sono le occasioni in cui si ricorre alla soppressione di quelli che presentano anomalie.
In linea con questa visione della diagnosi appare Hans Jonas, che distingue tra eugenetica negativa ed eugenetica positiva: la prima, presa alla lettera, è conservatrice, orientata alla tutela dell’eredità biologica; quella positiva, al contrario, mira al suo miglioramento. L’eugenetica negativa, dunque, si esercita nei limiti degli interventi terapeutici, mentre quella positiva si pone come obiettivo il miglioramento del patrimonio genetico tramite una liberale manipolazione che sembra non porsi limiti etici.
Lo “zelo preventivo”, secondo Jonas, può facilmente trasformarsi in idea dell’indesiderato ed esempio calzante del passaggio da eugenetica difensiva a quella miglioristica sarebbe proprio la diagnostica prenatale.
«Con il suo obiettivo dichiarato di selezionare gli embrioni difettosi, essa rientra nell’ambito dell’ eugenetica preventiva della compassione. Nella sua ottica è sostanzialmente accettato l’aborto e, in certi casi, è lo scopo pratico previsto dal procedimento diagnostico. […] Il desiderio dei genitori di avere una discendenza «perfetta» può […] stabilire criteri più ambiziosi per accettare la vita.» (2)
L’idea conservatrice di Jonas si rifà alla sua concezione della scienza, da lui intesa come sostanzialmente miglioristica: essa non si porrebbe come obiettivo la difesa di un bene di cui è già in possesso, ma quello di perfezionare la condizione esistente. Il bene consisterebbe, invece, nel preservare ciò che è già esistente e ciò spiega il timore suscitato in Jonas dalle tecniche di diagnosi.
Eppure, è possibile contraddire l’immagine della diagnosi prenatale fornita dall’autore in maniera molto semplice: non ha mai rivelato un “obiettivo dichiarato di selezionare gli embrioni difettosi”. Non è questo lo scopo: il fine è l’informazione – la quale viene gestita unicamente dalla gestante, dalla coppia, dalla famiglia – non la selezione arbitraria.
La tesi secondo cui ciascun essere personale adulto è sovrano di se stesso e del proprio corpo, invece, difende il principio della disponibilità della vita e dell’autodisponibilità dell’uomo, ovvero la facoltà di ogni individuo di disporre del proprio essere.
Vengono quindi a contrapporsi una visione fondamentalmente naturalista della vita umana e una che la identifica nel progetto individuale e sembrano essere mutuamente esclusive.
Secondo alcuni autori, dalla piena disponibilità per l’essere umano di sfruttare l’insieme degli strumenti prenatali deriverebbe la conseguenza di un nuovo eugenismo tecnologico, che si manifesta come una selezione procreativa che si affianca a quella naturale e a quella sessuale.
L’azione abortiva troverebbe giustificazione in quello che l’autrice definisce “pietismo”, cioè l’alibi del compiere l’uccisione per il bene del feto, in modo da risparmiargli una vita infelice e di sofferenze. Esso celerebbe, in realtà, da un lato una compassione ambigua per i soggetti malformati e le loro famiglie, dall’altro un atteggiamento di rifiuto e repulsione.
L’aborto a cui la diagnostica conduce appare quindi come una nuova forma di eugenismo tecnologico, privato e individuale, ma non per questo meno crudele di quello noto a livello storico, le cui motivazioni inerenti a un progetto personale, che verrebbe intaccato da una nascita indesiderata, vengono da alcuni considerate delle scusanti incapaci di nascondere la finalità intrinsecamente discriminatoria dell’atto abortivo.
Ciò che è bene precisare è invece un’accezione delle pratiche di diagnosi prenatale ed eventualmente abortive finalizzate al mantenimento dell’autodeterminazione dell’individuo, presupponendo che essa sia regolamentata in modo tale da evitare una degenerazione della scelta individuale in selezione coatta.
Ai problemi etici posti da questo sviluppo si risponde, in genere, privilegiando la libera scelta delle coppie interessate.
Alla gestante viene riconosciuto il diritto di avere un figlio sano, in quanto rientrante nel diritto inalienabile dell’individuo alla libertà e alla felicità: sarebbe una coercizione tentare di dirigere la coppia verso il forzato proseguimento, o la forzata interruzione, della gravidanza. Allo stesso tempo, dal punto di vista legislativo, non è consentita la totale libertà individuale a discapito della completa assenza di intervento di istanze giuridiche.
L’idea dell’autonomia illimitata della gestante, definito da Wilkinson (3) pure choice model, riconosce come obiettivo dei test prenatali la garanzia della scelta riproduttiva, con riguardo alla possibilità di evitare la nascita di un bambino con serie disabilità e in ordine da mantenere le scelte abortive nell’ambito privato e non renderle strumento per il conseguimento di obiettivi sociali.
Altre argomentazioni addotte allo scopo di evidenziare le intenzioni eugenetiche sottese ai test diagnostici vengono desunte dalla storia del nostro secolo: non soltanto l’esperienza nazista, ma anche quella delle politiche cinesi degli anni Novanta incentrate su sterilizzazione, aborto e divieto di matrimonio per coppie a rischio di mettere al mondo esseri “inferiori” e di quelle mirate alla selezione in base al sesso, con il conseguente tasso di aborti clandestini di feti femminili.
Nel 1988, ancora, la Commissione Europea propose il Progetto Genoma Umano, fondato sull’idea che le malattie siano il risultato dei geni e dell’ambiente e che l’unica soluzione sia quella di debellarle tramite l’eliminazione prenatale dei soggetti che avrebbero manifestato determinate predisposizioni genetiche.
A tali politiche è sottesa una “campagna di prevenzione” che altro non è se non l’eliminazione programmata e sistematica, nonché legittimata, di esseri umani, nella maggior parte dei casi motivata da ragioni di carattere economico, quali il peso sulla sanità statale, mascherati da “interesse della salute pubblica”.
Non è però legittimo trasformare un trauma storico in una motivazione giuridica valida, in quanto è radicato in un timore elementare che non ha fondamento razionale. I richiami a uno spettro eugenetico nelle allusioni alle intenzioni selettive dello Stato nel garantire servizi gratuiti nei reparti di IVG sono infondati: lo scopo è quello di tutelare l’autodeterminazione della gestante.
I sostenitori della incombente degenerazione delle biomedicine in piani eugenici incorrono in un’obiezione: le loro deduzioni, per quanto vivide, si fondano su presupposti meramente probabilistici e fanno leva, più che su strumenti razionali, su meccanismi psicologici di paura, empatia e suggestione. Si avvalgono infatti di quell’argomentazione che viene definita slippery slope, “china scivolosa”. È un ragionamento sbrigativo, utilizzato da coloro che si manifestano poco fiduciosi nei confronti del potenziale regolativo delle norme giuridiche e condannano pratiche – in nome di fatti che intuitivamente non costituiscono una ragione sufficiente per imporre un veto alle nuove tecnologie mediche.
Si tratta di un argomento consequenzialista che nega legittimità a una pratica, in questo caso alla diagnosi prenatale – che porta a una maggiore consapevolezza della gravidanza e alla tutela dello stato di salute del feto e della madre – in quanto potenziale causa di conseguenze palesemente indesiderabili. È un argomento debole, perché presenta come certezza logica qualcosa che è mera congettura: “se si consente X, ci sarà una progressione che conduce a Y”. Eppure, non sta accadendo che, consentiti la diagnosi prenatale e l’aborto, essi siano degenerati in un’arbitraria selezione di supposti individui più desiderabili di altri.
(1) Se anche fosse questo l’intento, a livello di ereditarietà del patrimonio genetico non è così: evitare una patologia nella generazione immediatamente successiva può anzi far aumentare il rischio che si ripresenti in quelle seguenti. L’aborto di un feto portatore di un gene recessivo di una malattia, ad esempio, seguito dal tentativo compensatorio di avere altri figli, può portare ad un incremento della frequenza del tratto recessivo nelle successive generazioni; oppure, l’aborto dei feti maschi affetti da patologie legate al cromosoma X aumenta proporzionalmente le nascite di femmine portatrici sane delle medesime patologie, che potranno così essere più facilmente diffuse.
(2) H. Jonas, Technik, Medizin und Ethik. Zur praxis derl Prinzips Verantwortung (1985), trad. it. Tecnica, medicina ed etica. Prassi del principio di responsabilità, Torino, Einaudi, 1997, p. 133.
(3) Wilkinson S., Prenatal screening, reproductive choice, and publich health, in Bioethics, Volume 29 Number 1, 2015.
Altre fonti:
Gambino G., Diagnosi prenatale. Scienza, etica e diritto a confronto, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2003
Bacchini F., Persone potenziali e libertà. Il fantasma dell’embrione, l’ombra dell’eugenica, Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2006.
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