Tribunale distrettuale d’Israele, 11 aprile 1961. Otto Adolf Eichmann è «un uomo di mezza età, di statura media, magro, con un’ incipiente calvizie, dentatura irregolare e occhi miopi» (1). Per raccontare del suo processo, il «New Yorker» invia Hannah Arendt, filosofa tedesca emigrata negli Stati Uniti per via delle sue origini ebraiche.
Eichmann è accusato di crimini contro il popolo ebraico, crimini contro l’umanità e crimini di guerra sotto il regime nazista. Egli si era di fatto occupato prima dell’emigrazione forzata degli ebrei verso altri paesi e poi, nella fase della “soluzione finale”, del trasporto ferroviario degli ebrei nei campi di sterminio.
La difesa lo dichiara «non colpevole, perché in base al sistema giuridico del periodo nazista egli non aveva fatto niente di male, perché le cose di cui era accusato non erano crimini ma “azioni di stato”, a cui egli aveva il dovere di obbedire» (2).
Eichmann, dal canto suo, dichiara di sentirsi colpevole dinanzi a Dio e non dinanzi alla Legge, che «le sue azioni erano criminose soltanto guardandole retrospettivamente, e lui era sempre stato un cittadino ligio alla legge, poiché gli ordini di Hitler – quegli ordini che certo lui aveva fatto del suo meglio per eseguire – possedevano “forza di legge”» (3). Eichmann non si sente un uomo malvagio o spregevole, anzi durante il processo dichiara che «non si sarebbe sentito la coscienza a posto se non avesse fatto ciò che gli veniva ordinato – trasportare milioni di uomini, donne e bambini verso la morte – con grande zelo» (4). Dichiara inoltre di non essere stato mai antisemita e di non aver mai ucciso (in modo diretto) un uomo in vita sua.
Il processo si rivela per Arendt un’occasione per scovare la grande questione morale che risiede in questo caso: il male è una cosa banale.
La figura che emerge non è quella di un mostro né di un criminale assetato di sangue (il ché sarebbe stato molto più rassicurante), ma di un uomo che dimostra la vastità del crollo morale che c’era stato in quegli anni.
Eichmann ripete più e più volte di non essere mai stato dissuaso da nessuno, «la sua coscienza gli parlava con una “voce rispettabile”, la voce della rispettabile società che lo circondava» (5). Egli raccontò di essere stato fortemente scosso e impressionato dalla vista dei campi di sterminio e dei massacri che vi si svolgevano, ma vedendo che nessuno si levava contro di lui smise di pensare e si limitò a organizzare con scrupolo il trasporto degli ebrei in quegli stessi campi.
L’enormità del massacro è dovuta al fatto che questi crimini furono commessi in massa. «Il guaio del caso Eichmann era che di uomini come lui ce n’erano tanti e che questi tanti non erano né perversi, né sadici bensì erano terribilmente normali. Questa normalità è più spaventosa di tutte le atrocità messe insieme» (6).
Una massa di uomini normali aveva delegato la propria responsabilità morale al di fuori di loro.
Il male può accadere, può verificarsi su larga scala e solo per nostra responsabilità. Vedere una massa di uomini “normali” riempire il web sempre più di insulti e minacce fa pensare che le persone non riconoscano la gravità della violenza che producono in rete e non ne sentano la responsabilità, come se non si trattasse di loro azioni.
La xenofobia, il razzismo, il sessismo sono ormai una costante della nostra realtà virtuale, come se questa non fosse sul piano effettivo della realtà, come se non ferisse e creasse sofferenza, come se quelle parole scritte tramite una tastiera non fossero comunque violenza reale. Le persone che scrivono questi commenti pieni d’odio non si vergognano di loro stessi, ma sono sostenuti dal fatto di essere un gran numero. E se ormai è “banale” e comune trovare insulti pieni d’odio sui social, questi episodi si stanno radicando con sempre più frequenza nella realtà in cui viviamo.
Se si pensa all’enorme mole di insulti antisemiti che ha ricevuto la senatrice a vita Liliana Segre, per aver istituito una commissione proprio contro l’odio, forse vale la pena riprendere in mano La banalità del male di Hannah Arendt e leggerlo per bene.
È proprio della storia umana che eventi accaduti una volta si possano ripetere, anzi per Arendt il ripetersi di un’azione comparsa una volta nella storia umana è molto più probabile della sua prima apparizione.
Dovremmo allora imparare una lezione dal caso Eichmann, una lezione che forse abbiamo dimenticato troppo in fretta: «la lezione della spaventosa, indicibile e inimmaginabile banalità del male» (7).
(1) Hannah Arendt, La banalità del male, Feltrinelli, Milano, 2009, p. 13.
(2) Ibid. pp. 29-30.
(3) Ibid. p. 32.
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