No, non si tratta della nuova canzone di Myss Keta, ma del titolo del libro di Sabrina Marchetti di cui si è parlato nello scorso incontro di CONTRA/DIZIONI. Sabrina Marchetti è Professoressa Associata dell’Università Ca’ Foscari di Venezia dove tiene il corso di Sociologia moderna e quello di Sociologia della famiglia e della vita quotidiana.
E proprio di vita quotidiana ha parlato nella sua conferenza sulla «soggettività postcoloniale “al lavoro” nelle memorie di lavoratrici domestiche».
Questo studio del 2011 risulta infatti molto attuale in un momento storico come il nostro in cui il tema della (im)migrazione è sempre all’ordine del giorno. Eppure questo non è un fenomeno caratteristico solo degli ultimi anni: già negli anni Sessanta e Settanta, gli anni “delle grandi partenze”, diverse donne arrivarono in Europa dalle ex colonie e trovarono lavoro proprio nei paesi che erano stati i loro colonizzatori. Se è vero infatti che il colonialismo (inteso come l’atto di fondare colonie) è finito da un pezzo, è vero anche che il fenomeno del post-colonialismo è un processo attivo che influenza tuttora la nostra attualità.
Lo studio di Sabrina Marchetti mostra come le eredità post-coloniali siano entrate a far parte di queste donne migranti in tutti gli aspetti della loro vita sociale.
In particolare, Marchetti ha cercato e intervistato le donne eritree giunte in Italia e rimaste a Roma e alcune donne surinamesi migrate in Olanda prima degli anni Ottanta. Trovarle è stato spesso difficile, come lei stessa ha raccontato: molte di quelle donne, infatti, erano tornate al loro paese d’origine subito dopo aver finito di lavorare, mentre molte altre non c’erano già più quando Sabrina ha iniziato le sue ricerche (parliamo del 2007/2008). Fortunatamente, però, quelle rimaste hanno accettato di condividere le loro storie e i loro ricordi, dall’infanzia nel paese nativo fino all’età adulta trascorsa lontano da casa.
Per comprendere fino in fondo le loro storie, come del resto tutte le storie, bisogna dunque partire dal principio.
In Eritrea la colonizzazione era finita già nel 1936, ciononostante ancora negli Quaranta la comunità italiana era ben consolidata nell’ex colonia, soprattutto ad Asmara, città di origine di tutte le donne intervistate. Nei loro ricordi gli italiani c’erano sempre stati, tanto che tutte e tutti ad Asmara avevano imparato l’italiano grazie ai film o alle canzoni, e conoscevano l’Italia attraverso i film e le immagini (soprattutto quelle di Roma e del Vaticano). Gli italiani erano stati loro compagni di scuola o loro vicini di casa, e quasi tutte avevano almeno un’amica o una parente che, per qualche motivo, si era trasferita in Italia: alcune avevano sposato un italiano e lo avevano seguito, mentre la maggior parte di loro aveva trovato lavoro come domestica nelle famiglie benestanti romane.
Questo perché le italiane che prima svolgevano quel mestiere si erano stufate di farlo; le eritree invece avevano già avuto esperienze come domestiche nelle missioni cattoliche, oppure avevano amiche che lo facevano in Italia e si erano fatte spiegare per filo e per segno quello che dovevano saper fare (stirare, lavare, cucinare e via dicendo): insomma, avevano avuto una sorta di formazione pre-partenza! E gli italiani, infatti, assumevano volentieri le eritree perché sapevano che erano “brave, pulite e intelligenti”, ovvero docili, diligenti e brave a eseguire gli ordini “senza dire niente” (come spiega una di loro, Anna), dunque perfette per essere inserite in un contesto di domesticazione.
E se, come Anna, pur non sapendo parlare perfettamente la lingua, sapevano stirare e alzare i letti, gli italiani “cosa potevano volere di più”?
Così “le ragazze di Asmara” (così le definisce Anna, e così Marchetti decide di intitolare il suo studio) si erano dovute accontentare di ereditare un posto scomodo che ormai nessuna italiana era più disposta a prendere, accettando di vivere in stanze minuscole e di sorbirsi tutte le fatiche che prima spettavano ad altre donne. Ed era successo proprio così a quelle intervistate da Marchetti, a quelle cioè che avevano scelto di restare a Roma dopo aver svolto il lavoro di domestiche per tutta la vita. Quando una giovane Sabrina aveva chiesto loro di poterle intervistare, si erano tutte mostrate molto affettuose e disponibili nei suoi confronti, accettando ben volentieri di raccontare le loro storie: che di storie da raccontare ne avevano a dozzine loro!
Come quella volta che Zufan era stata “prestata” per una cena importante a un’amica della sua padrona “che non aveva un’eritrea”, proprio come fosse un oggetto.
O quella volta in cui Anna aveva mandato tutti al diavolo ed era stata tutto il pomeriggio nella sua stanza dopo aver passato la mattina a pulire tutta la casa ed essere impazzita a cucinare il pranzo per i padroni e i loro ospiti: altro che vacanza, quando i padroni la portavano nella casa al mare era il periodo peggiore dell’anno!
Una storia diversa è invece quella delle surinamesi: esse erano giunte in Olanda per restarci, avevano iniziato a lavorare come badanti (delle persone anziane, ma anche dei bambini e della casa), un lavoro che prima di allora lì non esisteva, ma la maggior parte di loro aveva poi svolto altri lavori, e alcune avevano perfino iniziato a studiare. Durante le interviste però, nessuna surinamese si è mai autodefinita badante, preferendo utilizzare il termine olandese che noi potremmo tradurre con “assistente domiciliare”, ritenuto più nobile e dignitoso. Inoltre, raccontando del loro lavoro, dicevano di averlo fatto perché “le olandesi non ne erano in grado” e “altrimenti la casa andrebbe in rovina!”.
Quello che potrà sembrare un dettaglio superficiale rivela invece la principale differenza tra le surinamesi e le eritree: le prime avevano infatti imparato l’olandese ascoltando la radio, erano dunque più istruite e questo aveva permesso loro di acquisire una più alta consapevolezza di sé e del loro valore.
Erano diventate coscienti delle discriminazioni e dei pregiudizi nei loro confronti, del diverso trattamento che ricevevano e soprattutto di quello che avevano ricevuto quando lavoravano nelle famiglie olandesi. Per questo motivo molte di loro si erano rifiutate di parlare con Sabrina e la sua assistente olandese: “davvero vuoi che ti racconti cosa mi ha fatto tua nonna? No, non lo vuoi sapere, te lo dico io”.
E quelle poche che si erano prestate non erano certo state gentili come le eritree, che al contrario vedevano Sabrina come l’“italiana buona”.
A prescindere dalle differenze nel vissuto di queste donne, ci sono però dei punti in comune su cui Marchetti focalizza la sua riflessione: la tendenza all’etnicizzazione delle qualità necessarie a fare un certo tipo di lavoro, le dicotomie tra ricco e povero, nero e bianco, padrone e servo; e ancora l’infantilizzazione e indottrinazione del soggetto coloniale, o la commercializzazione del lavoro delle donne migranti, che oltre a diventare una merce si porta dietro tutto il peso degli stereotipi determinati dal passato coloniale. Ma soprattutto emerge ancora una volta la questione del genere come aspetto che influenza la sfera del lavoro, per esempio nel decidere quali lavori sono adatti alle donne, e in particolare alle donne migranti, che oltre alle discriminazione di genere subiscono anche quelle razziali.
In conclusione al suo studio, Marchetti propone dunque un’analisi della colonialità del lavoro domestico che opera su tre diverse dimensioni: quella della società, che si occupa della relazione tra le donne migranti e l’Italia in quanto paese in cui sopravvivono rappresentazioni etnicizzate e di genere che derivano dal periodo coloniale; quella del soggetto, che studia la capacità di incorporare nella propria auto-narrazione queste rappresentazioni per dare senso alla propria esperienza e alle relazioni di potere che le determinano; e infine quella che cerca di indagare a fondo le origini degli spostamenti migratori per ricordare che la catena migratoria non è mai la risposta, e se si crea ci sono sempre dei motivi antecedenti da scoprire. Per concludere, dunque, vi invito a leggere Le ragazze di Asmara, con la speranza di mettere fine una volta per tutte al (post)colonialismo e ai suoi ingombranti strascichi!
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