La camera chiara. Nota sulla fotografia è un saggio scritto dal critico francese Roland Barthes nel 1979 e pubblicato per la prima volta nel 1980.
Come ci suggerisce il sottotitolo, in questo volume è presente una serie di annotazioni sul modo in cui l’autore intende la Fotografia. Il saggio si divide in due parti: nella prima la affronta dal punto di vista ontologico; la seconda, invece, da un punto di vista più intimo ed emozionale, incentrato sul ritrovamento di una vecchia foto di sua madre e sul dolore per la sua perdita.
La lettura ci conduce subito al centro della questione: cos’è «in sé» (1) la Fotografia? Che cos’è la Fotografia nella sua unicità e nella sua essenza, dato che la sua essenza corrisponde sempre a ciò che illustra?
Lo scrittore cerca una plausibile risposta attraverso la ricostruzione della Storia della Fotografia, giungendo a ovvie conclusioni: è difficile, se non impossibile, realizzare un corpus lineare. Si rischia di cadere nell’assoluto tecnicismo o nell’ambito storico e sociologico, ampliando il discorso e, di conseguenza, allontanandosi dalla possibilità di rispondere alla domanda principale e di trovare l’«in sé» della Fotografia.
Per cui l’autore cambia approccio e si chiede: perché mi emoziono proprio di fronte a tale foto? L’aggettivo “tale”, in questa riflessione, risulta fondamentale per comprendere come Barthes concepisce la Fotografia. Sta ad indicare, infatti, una ed una sola fotografia, l’unica che mi fa emozionare.
Decide allora di analizzare solo poche foto, quelle che lo emozionano, individuando chi fa la foto (Operator), chi la subisce (Spectrum) e chi la guarda (Spectator).
La sua analisi si concentra sullo Spectrum, il fotografato. Chiunque posi per una foto si trasforma anticipatamente in immagine. Con la posa si sperimenta la paradossale situazione di vedere se stessi trasformati da soggetti a oggetti. Chiunque venga fotografato si trasforma in Tutto-Immagine: diventa quello che gli altri pensano di lui, e in questo caso, quello che il fotografo ha deciso di immortalare.
Lo Spectator è colui che osserva: Barthes si rende immediatamente conto che chi guarda una fotografia è animato da un sentimento del tutto arbitrario, non governato da regola alcuna. Mi posso innamorare di tale foto ma non di un’altra, nei confronti della quale sono totalmente indifferente.
Questo improvviso amore viene giustificato con l’utilizzo provvisorio del termine avventura, che permette l’esistenza di una foto, ovvero che fa sì che la foto ci avvenga.
In questo stato, il soggetto (lo spectator) anima la foto e la foto anima il soggetto: questa duplice esistenza prende il nome di animazione. In sé, la foto non è viva, però essa anima il soggetto ed è questo quello che fa un’avventura.
In questo modo, Barthes comprende su cosa si fonda il suo interesse per alcune foto. Le foto che animano sono caratterizzate da due elementi che co-esistono:
1. Studium, una sorta di interessamento generale alle foto senza particolare vivacità;
2. Punctum, che infrange lo Studium e trafigge senza possibilità di difesa. Il Punctum è quel segno particolare della foto che lascia una ferita nell’osservatore, proprio come Eros ferisce gli amanti. Il Punctum di una foto è la fatalità che punge l’osservatore, fino a ferirlo. Alcune volte è un particolare improvviso, un punto che riempie completamente lo scatto divenendo la cosa essenziale; altre volte è qualcosa di aggiunto dallo sguardo del fruitore, pur vivendo già nella foto.
Lo Studium appartiene all’ordine del to like e coincide con le intenzioni del fotografo: quando riconosciamo lo Studium vuol dire che entriamo in sintonia con i propositi del fotografo, quindi approviamo/disapproviamo le foto senza capirle dentro di noi, senza sentire la ferita e l’animazione. Infatti, Studium e intenzioni fotografiche rientrano nell’ambito della cultura che Spectator e Operator condividono.
Aggiunge Barthes che al di là della tecnica e della bravura, il fotografo è colui che riesce ad agire su quel particolare momento in cui qualunque cosa diventa di massimo valore, il valore fondamentale.
Il critico francese chiama questa capacità veggenza, che consiste nell’essere presente in quel momento preciso.
Non si tratta semplicemente di vedere e scegliere cosa fotografare ma di avere la capacità di cogliere il momento giusto e di fissarlo sotto l’aspetto dell’eternità.
Al termine della prima parte del saggio, tuttavia, la risposta alla domanda iniziale non è stata trovata: non si è ancora compreso quale sia la natura della Fotografia, il suo Eidos.
Così, la ricerca continua nella seconda parte del libro, spostandosi su un piano del tutto personale: il dolore per la morte di sua mamma si intensifica con il ritrovamento di una sua foto di quando era bambina, una sola tra le tante che tiene in mano e che gli ricorda l’essenza di sua madre e della Fotografia.
Barthes arriva a comprendere che il noema (2) della Fotografia, la sua forma, sta nell’unione tra la realtà di cui essa è portatrice e la testimonianza di un tempo che è passato.
Ciò che la Fotografia mostra è qualcosa che è esistito, ma che nel presente non esiste più; restituisce in oggetto fotografato ciò che era, e lo fa attraverso la luce. Questa restituzione attesta la presenza, l’esistenza di ciò che viene fotografato. La fotografia della mamma colta nella sua infanzia testimonia la sua esistenza: lei c’è stata, ora non c’è più.
L’essenza della Fotografia, quindi, non consiste nella sua storia o nelle sue classificazioni ma nel fatto che porta con sé un’Aria, un’ombra luminosa che accompagna il corpo, qualcosa che conferisce vita allo Spectrum, senza cui la fotografia resterebbe una sterile testimonianza su carta.
Se il fotografo, per mancanza di talento o veggenza, non riesce a dare all’anima trasparente la sua ombra chiara, il soggetto muore per sempre (3).
(1) R. Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, Einaudi, Torino, 2003, p. 5.
(2) http://www.treccani.it/enciclopedia/noema_%28Dizionario-di-filosofia%29/
(3) Barthes conclude affermando che la Fotografia è falsa a livello di percezione ma totalmente vera a livello di tempo e questo fa sì che acquisti le sembianze di un medium folle che la società o tende a smorzare come può, elevandola ad Arte, o tende a banalizzarla rendendola utile alla cultura, costringendola alla riproduzione seriale e svilendola nel semplice piacere di ciò che illustra.
Bibliografia:– R. Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, Einaudi, Torino, 2003.
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