Nel porto turistico di Civitanova Marche (MC), tra il monte Conero a Nord e la riviera adriatica a Sud e una distesa di mare azzurro davanti a noi, chi passeggia è accompagnato da diversi murales. Uno di questi ha dei delfini bianchi, ritagliati da pagine scritte, che saltano liberi su uno sfondo blu come il mare.
È dedicato a Sibilla Aleramo. Oltre al nome della scrittrice c’è una frase in alto a sinistra: «il vento mi scompiglia i pensieri».
Non è difficile immaginare l’artista passeggiare per questo porto, come facciamo noi oggi. È in questa città affacciata sul mare, infatti, che Marta Felicina Faccio, detta Rina, è diventata Sibilla Aleramo. Qui hanno avuto luogo le vicende autobiografiche che Rina racconterà nel suo capolavoro, Una donna, che pubblicherà proprio con lo pseudonimo Sibilla Aleramo, nome che le suggerì il poeta Giovanni Cena ispirandosi alla poesia Piemonte di Carducci.
Rina arriva in quella che allora si chiamava Porto Civitanova nel 1888, all’età di 12 anni. Il padre, Ambrogio Faccio, era un ingegnere piemontese chiamato in quel luogo a dirigere una fabbrica di bottiglie, un modernissimo impianto che prometteva benessere e posti di lavoro per quello che allora era un semplice borgo marinaro.
«Sole, sole! Quanto sole abbagliante! Tutto scintillava, nel paese dove giungevo: il mare era una grande fascia argentea, il cielo un infinito riso sul mio capo, un’infinita carezza azzurra allo sguardo che per la prima volta aveva la rivelazione della bellezza del mondo» (1).
Rina lascia Milano e i suoi studi e approda in un luogo che inizialmente la conquista, aiuta il padre che ammira immensamente nel lavoro in fabbrica e prosegue nelle sue letture.
Presto però si ritrova sola: nel 1889 la madre tenta il suicidio gettandosi dal balcone e creando grande scandalo nel piccolo paese; inoltre si allontana dal padre, fino quel momento modello morale indiscusso, perché viene scoperta una sua relazione extraconiugale. A quindici anni la vita di Rina viene ulteriormente sconvolta:
«Fui sorpresa da un abbraccio insolito, brutale: due mani tremanti frugavano le mie vesti, arrovesciavano il mio corpo fin quasi a coricarlo attraverso uno sgabello, mentre istintivamente si divincolava. Soffocavo e diedi un gemito ch’era per finire in urlo, quando l’uomo, premendomi la bocca, mi respinse lontano…» (2).
Ulderico Pierangeli, contabile nella fabbrica del padre, violenta Sibilla Aleramo che viene costretta a un matrimonio riparatore. La giovane scrittrice accetta la vita coniugale ma perde il bambino che aspettava.
«Per molti giorni giacqui inerte, ripetendo piano a me stessa la parola ‘mamma’; chiedendomi se avrei amato un essere del mio sangue e sentendo di non poter piangere con passione quel figlio che non avevo potuto formare (…) Povera, povera anima mia! Non le erano valse la bellezza, la bontà, l’intelligenza. La vita le aveva chiesto della forza: non l’aveva.» (3).
La coppia riesce ad avere un figlio nel 1895, ma la gioia di Sibilla Aleramo dura poco.
Pierangeli diventa sempre più geloso, costringe la moglie a non uscire di casa e in diversi episodi la picchia violentemente. L’estremo provincialismo di una cittadina che la rifiutava la porta a rifugiarsi nelle prime corrispondenze e pubblicazioni di articoli che alleviano la sua sofferenza, ma l’estrema infelicità della sua vita in casa la porta a tentare il suicidio. «Amare e sacrificarsi e soccombere! Questo il destino (…) forse di tutte le donne?» (4). In realtà Sibilla Aleramo non soccombe e nel 1902 lascia quella vita e decide di andare via.
«Allora, allora sentii che non sarei tornata, sentii che una forza fuori di me mi reggeva, e che andavo incontro al destino nuovo, e che tutto il dolore che mi attendeva non avrebbe superato quel dolore» (5).
Sono molte le conseguenze di questa scelta, in primis perdere il figlio. Per legge la custodia dei figli spetta ai mariti e Pierangeli allontana il bambino dalla scrittrice, che lo rivede solo altre tre volte nella sua vita, non riuscendo mai a ricucire il rapporto. Ma Sibilla Aleramo non può rinunciare a se stessa.
La vita dopo questa decisione non è facile e la scrittrice stessa racconta della sua depressione.
Ma dopo un po’ riesce a risollevarsi: «io considerai con uno strano stupore che vivevo ancora, che nulla di essenziale era veramente morto in me» (6), ci spiega Sibilla. È la forza dell’autodeterminazione, della libertà nuova appena conquistata, della possibilità di vivere senza la paura di un marito violento e di compiere le proprie scelte, seguire il proprio cuore e essere indipendenti.
Una donna che lascia il figlio può sembrare per certi versi scandaloso ancora oggi, possiamo immaginare che cosa potesse significare per la società dell’inizio del ‘900? Non solo Sibilla Aleramo si ribellò ai dettami della società lasciando un marito violento e ottuso, non curandosi di ciò che la gente pensava di lei, ma ebbe anche il coraggio di parlare apertamente delle sua storia, in un’autobiografia pubblicata per la prima volta nel 1906.
Una storia in cui la vita va avanti ma deve fare i conti con lo stupro, l’aborto, il tentato suicidio (prima della madre e poi il proprio), di amori extraconiugali, di dover lasciare un figlio molto amato perché la legge non le dava il diritto di occuparsene al di fuori del matrimonio. La società l’aveva costretta prima a un matrimonio riparatore con il suo stupratore, poi a dover abbandonare il figlio, non essendo riconosciuto il diritto di divorzio e nessuna tutela economica.
La nostra sofferenza ci fa sentire esposti, deboli e fragili quindi è un istinto naturale cercare di nasconderla, invece Sibilla Aleramo scelse di raccontare la sua storia.
Non solo la sua vita fu rivoluzionaria, ma anche ciò che ne fece. La mise a disposizione delle altre donne, facendone un manifesto della condizione femminile che non vale solo per l’Italia di quell’epoca: violenza, disparità economica e sociale, ingiustizia sono temi (purtroppo) ancora attuali. Forse Sibilla Aleramo chiamò la sua autobiografia Una donna non solo per dirci che ciò che era accaduto a lei accadeva a molte altre donne, ma per dirci anche che come lei era riuscita a ribellarsi, a trovare la forza di uscire da quella situazione, poteva farlo ogni donna e possiamo farlo anche noi oggi. Scrittrice, giornalista, poetessa, femminista, pacifista Sibilla Aleramo non si presenta come era un’eroina né come una donna straordinaria, ma solo come una donna.
(1) Sibilla Aleramo, Una donna, Milano, Feltrinelli, 1976, pp. 16-17
(2) Ivi, pp. 45-46.
(3) Ivi, pp. 65-66.
(4) Ibidem.
(5) Ivi, p. 184.
(6) Ivi, p.186.
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