Dopo il processo di Eichmann a Gerusalemme, Arendt fornì una particolare concezione di “male”: non radicale o radicato, non assoluto, ma “banale”. Proprio la figura di Eichmann, colui che aveva ideato e programmato la “soluzione finale”, lo sterminio di tutti gli ebrei nei campi di concentramento, suggerì ad Arendt che il male, alla fine dei conti, è una cosa banale.
Eichmann non era un mostro: le sue azioni di certo avevano condotto a fatti orribili, ma l’esecutore e l’ideatore del più grande sterminio di massa mai concepito si mostrava come un semplice funzionario di stato, un uomo che aveva “banalmente” eseguito gli ordini, svolto i suoi compiti senza un minimo di esitazione.
A muovere Eichmann non c’era un odio profondo verso gli altri, né un male assoluto, ma la banalità di un uomo che, parte di un sistema volto allo sterminio, non si è posto domande e ha continuato a condurre i suoi calcoli, come un meccanismo perfetto e funzionante di una macchina della morte.
Cosa sta allora alla base della malvagità umana?
In Vita della Mente Hannah Arendt scrive: «l’assenza di pensiero non si identifica con la stupidità; si può incontrarla in persone di intelligenza elevata e un cuore malvagio non ne costituisce la causa: è vero probabilmente il contrario: che la malvagità può essere causata da assenza di pensiero» (1). L’incapacità di riflettere sulle conseguenze delle proprie azioni, porta gli uomini a compiere il male.
Il pensiero è, per Arendt, l’unico argine al male, quel male banale che è frutto del non domandarsi circa le ragioni che si celano dietro alle proprie azioni. Riflettere permette sì di discernere tra bene e male, tra giusto e sbagliato, ma permette anche la formazione dell’identità personale. Proprio attraverso questo movimento, questo interrogarsi sulle ragioni che si celano dietro il nostro agire, l’essere umano si manifesta a se stesso come un io, come un soggetto capace di azione morale. Mediante il pensiero, che per Arendt è un continuo dialogo con se stessi, l’individuo è capace di identificarsi come una persona, come un nucleo di singolarità che ha la capacità di sentire gioia e dolore, di percepire il bene e il male e di conservarne il ricordo.
«Pensare e ricordare, […] sono modi in cui gli uomini mettono radici e prendono posto nel mondo – un mondo in cui tutti giungiamo come stranieri». (2)
In un continuo dialogo interiore l’essere umano si manifesta a se stesso, si riconosce come individuo capace di provare e provocare gioia e dolore, bene e male. È proprio a partire da questa capacità di manifestarsi a sé che l’individuo si radica nel mondo.
«Agendo e parlando gli uomini mostrano chi sono, rivelando attivamente l’unicità della loro identità personale […]» (3).
Il radicamento, il rivelarsi di un “io”, di una identità personale, il mettere radici nel mondo, è la risposta a questo male banale, un male che annulla il pensiero, che priva gli individui della loro identità.
«Questa capacità di rivelazione del discorso e dell’azione emerge quando si è con gli altri; non per, né contro altri, ma nel semplice essere insieme con gli altri» (4).
Solo attraverso lo sguardo altrui l’essere umano è riconosciuto come persona.
Senza la pluralità degli individui non ci resterebbe che un vuoto pensare, una trottola che gira su se stessa senza potersi mai fermare.
Radicandosi, l’essere umano appare ai suoi simili, è riconosciuto come soggetto, come una persona. Proprio in questo essere parte di una moltitudine, in questo far parte degli uomini che abitano il mondo, egli si oppone al nulla.
Riconoscendosi come umani, come persone, come individui diversi ma uguali, con le stesse paure, gli stessi desideri, le stesse ambizioni, si è capaci di creare qualcosa nel mondo, un qualcosa che si oppone al vuoto.
“Ti vedo”, “Ti ascolto”, “Ti riconosco”: con queste parole l’altro emerge dal nulla e si manifesta nel mondo come altro da me.
Ed è proprio in questo vedersi, in questo riconoscersi vicendevolmente che l’uomo pianta radici nel mondo e, semplicemente, esiste.
(1) H. Arendt, La vita della mente, Il Mulino, Bologna, 2009, p. 95.
(2) H. Arendt, Alcune questioni di filosofia morale, Einaudi, Torino, 2015, p. 61.
(3) H. Arendt, Vita activa, Bompiani, Milano, 1988, p. 130.
(4) Ibidem, p. 131.
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