Dopo Rinata, uscito nel 2018, Nottetempo ha portato avanti l’opera di traduzione dei taccuini di Susan Sontag, regalandoci uno splendido secondo volume dal titolo emblematico: La coscienza imbrigliata al corpo.
Le annotazioni coprono il periodo centrale della vita di Sontag: hanno inizio nel 1964, anno in cui, trentunenne, scrive e pubblica il suo famoso essay Notes on Camp, dando inizio a una fiorente produzione non solo saggistica, ma anche letteraria e cinematografica, e terminano nel 1980.
Sontag si rivela per quel che è: un’intellettuale a tutto tondo, non solo una scrittrice o una filosofa, dotata di uno straordinario senso critico e capace di guardare oltre la superficie delle cose.
I taccuini non sono mai un testo di facile lettura: sono personali, seguono il flusso di pensiero del proprio autore. Sono annotazioni, aforismi, idee — frammenti di un discorso amoroso che copre tanto la vita, quanto l’opera di chi li scrive.
«Il declino della lettera, l’ascesa del taccuino! Non si scrive più agli altri; si scrive a se stessi.
Perché? Per parsimonia? Non si sprecano le proprie belle frasi, la propria saggezza inviandole a qualcun altro — un destinatario lontano che potrebbe non essere così gentile da conservare la lettera.
Conservala per te stesso! […]
La persona di un taccuino è diversa. Più insolente […]» (1)
La stessa Sontag ci racconta la natura del taccuino e lo fa proprio attraverso un’annotazione del 1980.
È curioso leggere un testo e trovare una sua possibile chiave di lettura tra le sue stesse pagine: la persona che si racconta in questo volume è, in effetti, diversa dalla saggista che tutti conosciamo. È una persona totale, fatta di pensiero e di sensibilità: una coscienza imbrigliata al corpo.
Ciò che colpisce è proprio la simultaneità dei due momenti, di ragione e sentimento. Le note sui film di Antonioni e Bertolucci, sull’Arte moderna e sull’Estetica Camp si accompagnano alle riflessioni sulla vita interiore ed esteriore di Sontag. Quanto, di un autore, possiamo leggere nelle sue opere destinate al pubblico? E quanto, invece, possiamo trarre dai suoi taccuini?
«Ho un registro più ampio come essere umano che come scrittrice. (Per certi scrittori è il contrario.) Solo una parte di me è disponibile a trasformarsi in arte.» (2)
Lo spazio diaristico è un luogo privato di riflessione, che ci rivela un’autrice la cui vita emotiva è tanto travagliata quanto è vivace il suo fervore intellettuale.
Documentazione, dati, intuizioni sono tutt’uno con un vissuto di emozioni complesse. Per niente indulgente con se stessa, fragile, dipendente nella sua vita relazionale, la Sontag dei taccuini psicanalizza il suo io e lo mette a nudo, rivelando a se stessa — e ora anche a noi — le sue debolezze.
«Non che io creda (o abbia mai creduto) di essere cattiva — in tutto e per tutto. Credo di non essere attraente, di non poter essere amata, perché sono incompleta. Il problema non è ciò che sono, ma che non lo sono di più (comprensiva, viva, generosa, attenta, originale, sensibile, coraggiosa, ecc.).» (3)
Quel più ha valore intensivo, mi sembra. Nell’orizzonte del testo, disseminato di citazioni, popolato di moltissimi autori diversi, degli stimoli culturali più variegati, quel più non può certo essere quantitativo. È come se Sontag, attraverso i suoi diari, ci dicesse che i colori che vuole vedere devono essere più saturi di come sono: dalla lettura del volume si sente un bisogno radicale di scavare a fondo nell’essenza dei fenomeni, di essere in modo pieno e assoluto.
«Non c’è sintassi per la sensibilità — perciò la si ignora.» (4)
Forse, quella sintassi si compie nel modo più perfetto proprio nella forma del diario. Vita, arte e ricerca si intrecciano, in un flusso continuo che non si arresta mai.
Grazie a Nottetempo!
(1) S. Sontag, La coscienza imbrigliata al corpo: Diari e taccuini 1964-1980, a cura di David Rieff, traduzione di Paolo Dilonardo, Nottetempo, Milano, 2019.
(2) Ibidem.
(3) Ibidem.
(4) Ibidem.
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