American Skin

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Sono immagini a dir poco agghiaccianti quelle che abbiamo visto tutti la scorsa settimana a proposito della morte del quarantaseienne afroamericano di Minneapolis. George Floyd era stato fermato dalla polizia per un controllo, ma l’unica grande “colpa” che aveva era quella di essere nigger, e questo tanto è bastato per scatenare la violenza degli agenti di polizia che lo hanno spinto a terra e uno di essi gli ha premuto il ginocchio sul collo fino a soffocarlo. Vane le suppliche di Floyd che gridava disperato «I can’t breathe – non respiro!». 

A seguito di questo omicidio a sfondo razziale sono scoppiati disordini: il movimento Black Lives Matter ha organizzato delle marce per chiedere giustizia. Quattro poliziotti sono stati rimossi dall’incarico, l’FBI ha aperto un’indagine per violazione dei diritti civili e il sindaco di Minneapolis, Jacob Frey, si è scusato con la famiglia Floyd (1).


Ma è sufficiente? È sufficiente prendere provvedimenti o chiedere scusa quando ormai il danno è fatto?


Dal canto suo, la polizia si è difesa dichiarando che Floyd opponeva resistenza all’arresto, ma è un motivo sufficientemente valido per uccidere una persona in quel modo? Uno degli aspetti più inquietanti di tutta questa vicenda è che non si sa cosa sia peggio: essere ammazzati, perché di colore, a causa di un controllo della polizia o essere guardati morire, circondati da spettatori che si sono limitati a riprendere la scena e a dire due parole ai poliziotti

Quello di George Floyd, purtroppo, non è un caso isolato: la police brutality verso la comunità nera è un problema ben noto nella società americana, che affonda le sue radici nello schiavismo e nella guerra di secessione. All’alba dell’indipendenza americana (1783) già si profilavano le basi di un problema che ancora oggi segna profondamente la società: infatti, la guerra di indipendenza fu una guerra all’insegna della libertà dalla madrepatria inglese e la novità, rispetto alle costituzioni europee, era che quella americana si appellava alla sovranità popolare.


Il popolo, dunque, stipulava un patto tra governati e governanti e istituiva la società, che doveva garantire e tutelare quelli che erano i diritti dello stato di natura teorizzato da Locke, dunque diritto alla vita, alla libertà e alla proprietà, la quale viene prodotta dal lavoro del singolo.


Il problema di una Nazione che si faceva portavoce della libertà era che questo principio strideva fortemente con la situazione reale della società: non solo il problema della colonizzazione dell’ovest, dove «i pellirosse si videro rubare la terra con le armi della violenza e con quelle dei contratti fondati sulle truffe più scoperte: per cifre irrisorie milioni di ettari di terra furono vendute dai capi indiani al governo degli Stati Uniti» (2); ma anche il problema della schiavitù.

Thomas Jefferson condannò fortemente la schiavitù definendola una pratica contronatura, tanto che nel 1808 la tratta degli schiavi fu abolita de iure; tuttavia, de facto essi continuarono a essere contrabbandati e sfruttati nei campi dai loro padroni. La schiavitù fu una delle cause, oltre a quelle economiche e sociali, della guerra di secessione (1861-1865), che vedeva da un lato gli Stati del Nord, che mal tolleravano la pratica della schiavitù e, dall’altro, quelli del Sud che, in virtù del fatto che nei loro territori vi erano immense piantagioni di tabacco e cotone, continuavano a sfruttarla.


Il grande paradosso americano è dunque il fatto che la libertà, tanto sbandierata e professata, in realtà risulta essere estremamente selettiva: solo i bianchi, in quanto bianchi, hanno il diritto di essere liberi e tutelati, gli altri no.


Nel periodo successivo al 1865, quello della Ricostruzione, lo schiavismo fu abolito, ma fu commesso un grande errore perché la sua abolizione fu solo una legge: infatti, nessuno si preoccupò di accompagnare questo provvedimento a delle politiche sociali ed economiche per raggiungere la piena integrazione tra americani e minoranze, infatti ai neri non restava altro se non emigrare al nord o continuare a stare alle dipendenze dei loro padroni al sud.

Il periodo della Ricostruzione, inoltre, dette luogo anche alle Leggi Jim Crow (1876-1964), che di fatto peggioravano ancora di più la situazione, perché fondamentalmente facevano leva sul principio Separate but equals, che spianò la strada alla segregazione razziale e alle teorie suprematiste bianche. In questo modo i bianchi continuarono a perpetrare e radicare l’atteggiamento che avevano sempre avuto nei confronti delle minoranze.


Queste ultime continuarono ad essere marginalizzate, ghettizzate e i rapporti si costruirono nell’ottica di uno sguardo dominante da parte dei bianchi.


A fronte di tutto questo si spiega, dunque, il perché di questo abuso di violenza. Molti degli agenti di polizia bianchi, soprattutto in alcuni Stati dell’America (dove i contrasti sono anche maggiori), si fanno portavoci di questa cultura pregna di razzismo e machismo, che utilizza la violenza per reprimere le minoranze, incontrando raramente istituzioni che contrastano questo tipo di atteggiamento. Di conseguenza, è cresciuto il disagio ed è fomentato l’odio da parte di entrambi i gruppi (maggioranza bianca e minoranza nera).

Un odio che non è sicuramente attenuato dalla presenza di Donald Trump alla Casa Bianca, che incarna a pieno quella mentalità tutta americana dominante e violenta. Difatti, i suoi commenti circa i disordini scoppiati a Minneapolis e in molte altre città americane, sono stati: «when the looting starts, the shooting starts» (3), segno di uno Stato che non cerca il dialogo con i cittadini, ma che preferisce mandare l’esercito per dimostrare la propria potenza: una strana idea di stato democratico.


George Floyd è solo l’ultimo di una lista molto lunga di afroamericani condannati da una polizia che si erge a giudice, che decide delle sorti delle persone senza dare loro possibilità di replica, calpestandone la dignità con una fermezza e un’impassibilità che fa rabbrividire.


A questo proposito mi viene in mente una canzone del grande Bruce Springsteen intitolata American Skin (41 shots), uscita nell’album High Hopes nel 2014, che racconta la storia di Amadou Diallo, un ventitreenne afroamericano vittima della brutalità di quattro agenti della polizia di New York: Richard Murphy, Sean Carroll, Kenneth Boss e Edward McMellon. La polizia stava cercando uno stupratore somigliante a Diallo, e quando gli chiesero di farsi riconoscere, il ragazzo mise le mani in tasca per prendere il portafoglio. I poliziotti, pensando che stesse estraendo un’arma spararono ben quarantuno colpi. Ancora più triste fu il seguito della vicenda: i poliziotti non solo furono assolti dalle accuse (4), ma la politica cercò di insabbiare la vicenda discolpando e giustificando gli agenti.

«Is it a gun, is it a knife/ Is it a wallet, this is your life/ It ain’t no secret/ It ain’t no secret/ No secret my friend/ You can get killed just for living in your American skin» (6)

Episodi come questi, anche se sembrano tanto distanti da noi, in realtà dovrebbero far scaturire delle profonde riflessioni. Il razzismo, in una società in cui ciò che si insegna è l’odio o in cui si dà ai cittadini il capro espiatorio di turno perché è più comodo scatenare la guerra tra poveri anziché fare un’analisi approfondita e critica di quelli che sono i reali problemi della collettività, diventa un qualcosa di normale. E questo è un problema che va fortemente contrastato con l’informazione, l’educazione, la cultura e la conoscenza.


In Italia, oltre al fatto che esistono ancora i Decreti Sicurezza, recentemente abbiamo assistito alla polemica in merito alle regolarizzazioni dei migranti.


Alcuni sostengono che non si tratta di un provvedimento prioritario, in quanto prima ci si deve occupare degli italiani disoccupati (7). È veramente triste pensare che tale questione non sia da considerare prioritaria, quando sulle nostre tavole sono presenti ogni giorno frutta e verdura provenienti verosimilmente da un lavoro sfruttato, sottopagato e spesso al soldo della criminalità organizzata. È assurdo pensare che la cosa non ci riguardi, perché il colore della pelle dei lavoratori diventa un motivo buono per girare la testa dall’altra parte.


Ecco perché diventa importante la riflessione, per non lasciarci indifferenti di fronte alle ingiustizie delle società di tutto il mondo.





(1) https://ilmanifesto.it/la-rivolta-di-minneapolis-giustizia-per-george/

(2) A. De Bernardi, S. Guarracino, La conoscenza storica, Mondadori, Milano, 2011, pag. 133

(3) https://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/2020/05/29/twitter-censura-trump-esalta-violenza_a0a045a1-26b6-4388-b1b6-2fafedfa396b.html

(4) «Quando inizia il saccheggio, si inizia a sparare»  https://www.repubblica.it/online/mondo/diallo/impuniti/impuniti.html

(5) NdR: la canzone ha fatto il suo debutto nel repertorio di Springsteen già nel tour 1999-2000, per poi venire pubblicata per la prima volta in una versione dal vivo nel disco Live in New York City edito nel 2001. Quella contenuta in High Hopes è comunque la prima registrazione ad apparire in un album in studio.

(6) «è una pistola,/ è un coltello,/ è un portafoglio, questa è la tua vita,/ non è un segreto,/ non è un segreto,/ Non ci sono segreti amico mio,/ puoi essere ucciso solo perché vivi nella tua pelle americana»; American Skin, Bruce Springsteen

(7) https://www.ilpost.it/2020/05/10/salvini-regolarizzazione-migranti/