Sì, viaggiare

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Viaggiare

Una delle problematiche legate all’emergenza coronavirus è sicuramente l’organizzazione delle vacanze estive. Sarà un’estate di convivenza con il virus e probabilmente gli italiani opteranno per un “turismo di prossimità” ma non rinunceranno di certo alla possibilità di viaggiare.

Sì, perché dietro all’esperienza del viaggio si nascondono bisogni emotivi e personali: il viaggio è un fenomeno psicologico, in quanto non è solo scoperta di altri luoghi e culture ma è anche un cammino di conoscenza di se stessi. Viaggiare rappresenta l’uscita dalla routine di tutti i giorni, il superamento degli schemi compulsivi e della ritualità ossessiva a cui il lavoro e le nostre città ci sottopongono continuamente.


La vacanza è una condizione dello spirito, un momento al di là del quotidiano utile ad apprezzare il quotidiano stesso.


In letteratura esiste un’opera emblema del viaggio: l’Odissea di Omero, in cui viene narrato il percorso di ritorno –  νόστος –  di Ulisse, da Troia verso la sua patria Itaca. Dunque l’errare per mare dell’eroe costituisce una perfetta metafora della vita, il piacere di spostarsi da una realtà nota e rassicurante per soddisfare nuovi bisogni di scoperta e indipendenza e poi ritornare alle proprie origini dove è radicato il senso dell’esistenza stessa.

Anche i filosofi hanno fatto uso dell’immagine del viaggio e con diverse connotazioni. Il pensatore greco Parmenide, nel suo poema in versi intitolato Sulla Natura, di cui ci restano vari frammenti, racconta il suo personale viaggio per cielo alla ricerca della verità. Si tratta di un percorso eccezionale, in cui Parmenide, su un carro guidato da velocissime cavalle, verrà condotto fino alla casa della giustizia.

«Le cavalle che mi portano fin dove il mio desiderio vuol giungere mi accompagnarono, dopo che mi ebbero condotto e mi ebbero posto sulla via che dice molte cose, che appartiene alla divinità e che porta per tutti i luoghi l’uomo che sa. Là fui portato» (1).

Siamo dunque di fronte ad un itinerario straordinario perché voluto dalle divinità e metafora del pellegrinare alla ricerca di una conoscenza autentica che il filosofo dovrà poi rivelare al mondo intero.


Inoltre per la filosofia il viaggio ha un forte legame con la scoperta del proprio sé, della propria identità personale: viaggiare per conoscersi, per riscoprirsi e poi, al ritorno, ritrovarsi diversi e rinnovati.


In questo senso possiamo fare riferimento al pensiero di Nietzsche. Il filosofo viaggiò parecchio nella sua vita e nel suo diario esprimeva il profondo bisogno di girare il mondo, con queste parole:

«Ieri sera mi è venuta d’improvviso una straordinaria voglia di viaggiare, ma non in maniera convenzionale, bensì senza denaro. Mi è venuto in mente che vivere soddisfacendo tutti i nostri bisogni è di gran lunga meno interessante del campare alla giornata affidandosi alla fortuna, senza pensare al domani. Che si abbia beninteso qualcosa da parte per i casi imprevisti, è naturale. Vagare così alla giornata, alloggiare dove capita, avere un paio di avventure, è una cosa stupenda» (2).

Dunque un bisogno incontenibile di muoversi quello di Nietzsche − filosofo viandante − che lo porta a sostenere, nell’opera La Gaia Scienza, l’eternità del viaggio che spinge l’uomo, paragonato a un vascello che naviga per mari, a un cambiamento nel rapporto con gli altri, mutamento determinato da questo suo desiderio innato di vagare. Dunque il viaggiare nietzscheano provoca un profondo rinnovamento nell’individuo e nelle sue relazioni.


Il senso del viaggio in sé ha inoltre subito notevoli cambiamenti nel corso della storia, trasformandosi, con il processo di industrializzazione, in un prodotto di consumo.


Così al viaggiatore mosso da spirito di curiosità e audacia, che intraprende una sorta di avventura in cui i suoi accompagnatori sono l’imprevisto e la novità, si sostituisce il turista, che sa perfettamente dove andrà e cosa dovrà aspettarsi. Il turista ha già organizzato il suo viaggio, conosce i posti che visiterà perché ha virtualmente osservato quei luoghi attraverso immagini dettagliate e filmati recuperati nel web.

«Nella pratica moderna del viaggio, quella turistica, tutti si muovono in un quadro di immaginari precodificato. Nessuno si reca in un luogo del tutto sconosciuto. Quando si sceglie la meta del viaggio o della vacanza, lo si fa sulla base di immagini, di filmati, di letture già acquisite. Si va in un posto perché si pensa di sapere come quel luogo è» (3).

Questo tipo di considerazioni non devono però farci credere che l’autentico viaggiatore e il vero spirito del viaggio siano ormai tramontati, poiché ancora oggi è facile trovare persone desiderose di intraprendere percorsi inesplorati, mosse da una forte curiosità verso il nuovo e il diverso. Si può dunque vivere il viaggio come incontro con culture e realtà differenti, in grado di arricchire le nostre esperienze.


Così, mentre la partenza costituisce il momento del distacco dalla propria casa e dal quotidiano, l’arrivo nel posto desiderato è una dimensione di unione tra il singolo e il luogo di destinazione, il raggiungimento di un traguardo.


A sua volta, il ritorno è un ricongiungersi al punto da cui si era partiti per recuperare tutto ciò che è accaduto attraverso la memoria. Ma, probabilmente, ha ragione Kapuściński: un viaggio non inizia quando partiamo né si conclude quando giungiamo alla meta prescelta. Per la verità, ci dice il giornalista e scrittore polacco: «comincia molto prima e non finisce mai, dato che il nastro dei ricordi continua a scorrerci dentro anche dopo che ci siamo fermati. È il virus del viaggio, malattia sostanzialmente incurabile» (4).