Suite francese di Irène Némirovsky è una di quelle opere che ampliano il tuo sguardo, un libro implacabile che parla di un momento e di un luogo ben preciso, la Francia occupata dai tedeschi durante la seconda guerra mondiale, ma allo stesso tempo racconta l’umanità più vera, ed è questa la sua grande forza. Némirovsky ci mostra quanto – di bello e di brutto – da essa viene fuori nei momenti di estrema difficoltà causati dalla guerra, dalla povertà, da un’invasione, dalla paura, dall’odio e dall’amore.
Chiunque cerchi di comprendere la nuda natura del genere umano trae beneficio dalla lettura di grandi romanzi che con lucidità riescono a ritrarre personaggi che con le loro azioni e con i loro pensieri possono aprire per noi orizzonti nuovi di comprensione. Il romanzo di Némirovsky rientra di certo tra questi.
La prima parte dell’opera è intitolata Temporale di giugno.
Lunedì 3 giugno 1940, Parigi è stata bombardata per la prima volta, i tedeschi si avvicinano, stanno per invadere la Francia e per arrivare a Parigi. Tramite lo sguardo dell’autrice seguiamo l’esodo dei parigini verso la campagna e il sud della Francia. Seguiamo la ricca e importante famiglia Péricand, il celebre scrittore Gabriel Corte e la sua giovane amante, Maurice e Jeanne Michaud, una coppia di impiegati con un figlio al fronte. Tutti, a malincuore, prendono lo stretto indispensabile, salgono sulle macchine o si incamminano a piedi, perché i posti sui treni sono esauriti. Tutti si mettono in fuga. Grazie alle istantanee di personaggi con estrazioni sociali differenti, la prima parte del romanzo consegna una panoramica trasversale sull’esodo da Parigi.
La seconda parte, intitolata Dolce, ci mostra invece la vita in un piccolo paese di campagna durante la guerra.
Dopo il variegato affresco sulla natura umana della prima parte, il romanzo non è più di tipo corale, ma si concentra sul personaggio di Lucile, una giovane donna della piccola nobiltà cittadina con un marito, che non ama, prigioniero di guerra e che vive con la severa suocera. Anche qui l’arrivo dei tedeschi sconvolge la situazione: in casa di Lucile si acquartiera Bruno, un ufficiale tedesco. Vediamo nascere tra i due un sentimento. Némirovsky ci vuole mostrare l’altra faccia della medaglia: la guerra è fatta da uomini, al di là delle uniformi diverse e dei diversi colori delle bandiere per cui combattono e muoiono, da entrambe le parti della barricata ci sono e rimangono persone, che fra di loro hanno probabilmente più cose in comune che differenze.
Il romanzo è incompiuto, probabilmente avrebbe visto incrociarsi i destini dei diversi personaggi, ma nel luglio del 1942 Némirovsky fu deportata ad Auschwitz dove morì poco dopo. La sua colpa, come quella di tanti altri, era di essere ebrea.
La vita dell’autrice non è meno avvincente delle sue opere.
Nata in Russia nel 1903, figlia di un uno dei più ricchi banchieri russi e di una donna che vedeva in lei l’inizio del declino della sua femminilità e della sua avvenenza (1), fu affidata alle cure di una governante e di ottimi precettori ma crebbe in solitudine. Allo scoppio della rivoluzione, i bolscevichi misero una taglia sulla testa del padre ma la famiglia riuscì a fuggire da San Pietroburgo verso la Finlandia, la Svezia e poi Parigi. Irene amò molto la Francia, si iscrisse alla facoltà di lettere della Sorbona, conduceva una vita mondana, nel 1926 sposò Michel Epstein con cui ebbe due bambine. La sua carriera di scrittrice decollò con David Golder (1929) e Il ballo (1930) che la inserirono nei circoli letterari, le garantirono notorietà e apprezzamenti.
Némirovsky nelle sue opere ricorre ai più comuni stereotipi dell’epoca per descrivere gli ebrei, dall’avere capelli ricci e neri alla grande passione per il denaro, mostrando però allo stesso tempo un senso di appartenenza e dichiarandosi orgogliosa di essere ebrea in diverse interviste. Negli anni dell’ascesa di Hitler e dell’avvicinarsi della guerra, Némirovsky si convertì al cattolicesimo e chiese, senza ottenerla, la cittadinanza francese. Nonostante il successo e la notorietà, durante l’occupazione tedesca fu arrestata e deportata.
Le figlie della scrittrice, Elisabeth e Denise Epstein, perso anche il padre ad Auschwitz, fuggirono con la loro tutrice e riuscirono a salvarsi portando sempre con loro una valigetta con gli ultimi scritti della madre. Molti anni dopo Denise decise di dattilografare il manoscritto quasi illeggibile per via della minuscola grafia, dovuta all’esigenza di risparmiare carta difficilmente reperibile in tempo di guerra.
Solo allora scoprì che non si trattava di semplici appunti e nemmeno di un diario, ma di un vero e proprio romanzo.
Némirovsky nell’ultima sua opera ha realizzato un affresco di quello che succedeva intorno a lei, ci ha mostrato cosa significa davvero una guerra, come la vivono le persone, come ne stravolge le vite:
«[…] villaggi invasi da donne e bambini stremati e affamati che lottano per dormire su una sedia nel corridoio di una locanda di campagna, automobili stracariche di mobili, di materassi, di coperte e di stoviglie fermi in mezzo alla strada senza una goccia di benzina, ricchi borghesi disgustati dal volgo che cercano di salvare i loro i loro preziosi minnoli, mantenute piantate in asso dei loro amanti impazienti di lasciare Parigi insieme alla famiglia, un prete che scorta verso un rifugio un gruppo di orfani, […] un militare tedesco alloggiato in una casa borghese che conquista la giovane moglie di un prigioniero sotto gli occhi della suocera, […] in mezzo ai soldati sconfitti che si trascinano a fatica sulle strade, nel caos dei convogli militari che trasportano i feriti negli ospedali» (2).
In Suite francese Némirovsky descrive la vita intorno a sé, ciò che vedeva nel piccolo paese di campagna dove era rifugiata durante l’occupazione tedesca, racconta ciò che conosceva da vicino, ma nel farlo ci mostra anche i tratti più propri del genere umano come solo i grandi capolavori fanno, nonostante sia riuscita a scrivere solo due
quinti dell’opera che aveva progettato.
Nel suo diario troviamo, insieme agli appunti per l’opera che stava scrivendo, una lucida analisi di quello che stava accadendo:
«Da qualche anno tutto quello che si fa in Francia ha un solo movente: la paura. È stata la paura a provocare la guerra, la sconfitta e la pace attuale. Il francese non odia nessuno, non nutre gelosia né ambizione delusa, né un vero desiderio di vendetta. Ha una fifa blu» (3).
Ma anche una risoluzione morale, un rifiuto all’odio generalizzato nonostante la grande sofferenza personale, segno di un grande animo e non solo di un grande talento:
«Giuro qui di non riversare mai più il mio rancore, per quanto giustificato, su una collettività di uomini, quali che siano la razza, la religione, le convinzioni, i pregiudizi, gli errori. Ma non posso perdonare gli individui, quelli che mi respingono, quelli che freddamente ci voltano le spalle» (4).
(1) Il ballo (1930) è l’opera d Némirovsky che racconta il rapporto tormentato con la madre.
(2) Irène Némirovsky, Suite francese, Milano, Adelphi, 2005, p.415. Postfazione di Myriam Anissimov.
(3) Ivi. p. 350. Appunti tratti dal suo diario.
(4) Ibid.
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