Accoglie i bambini e le bambine dai tre ai sei anni e il suo nome ufficiale è “scuola dell’infanzia” eppure la chiamiamo ancora scuola “materna”. Ci avete mai pensato? Certo, non siamo soliti analizzare l’etimologia e l’origine della maggior parte dei vocaboli che utilizziamo nel nostro linguaggio quotidiano, eppure nella parola “materna” la radice “madre” è ben evidente. Ma quanti di noi se ne accorgono o ci hanno mai riflettuto? Perché un intero grado del sistema scolastico italiano si richiama così esplicitamente e comunemente alla parola “madre”?
Il motivo salta subito agli occhi se facciamo un passo indietro.
La scuola materna statale nacque nel 1968. L’istanza di democratizzazione della scuola era forte e pervasiva e prevalse nonostante lunghi rinvii e vari tentativi di contrasto. Molti non vedevano in modo favorevole l’intromissione dello Stato nel campo della formazione infantile. Era un mondo curato dalle madri, molte delle quali erano casalinghe, o tutt’al più dal mondo ecclesiastico. Ma era il 1968 e la società stava cambiando: da una parte lo Stato voleva andare incontro alle esigenze di molte donne che, sempre più numerose, entravano nel mondo del lavoro; dall’altra l’istruzione come diritto fondamentale della Repubblica iniziava a essere trasposta dalla teoria alla pratica, non solo a parole ma anche nei fatti.
Che «la Repubblica detta le norme generali sull’istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi» (1) era infatti già scritto nell’art.33 della Costituzione, ma la sua completa realizzazione fu laboriosa. Nel 1962 nasceva la scuola media unica, nel tentativo di non limitarsi a garantire un’istruzione esclusivamente “elementare” alla popolazione e di aprire la strada verso l’istruzione superiore (in una società in cui i licei e le università continuavano ad essere appannaggio dei ceti medio-alti) a fasce sempre più ampie della popolazione. Poi è arrivato il Sessantotto, i movimenti operai e studenteschi e le loro rivendicazioni, la liberazione sessuale, specchio di una società civile in evoluzione.
In questo clima culturale vide la luce la scuola materna statale, che per legge prevedeva che tutte le figure che istituiva al suo interno (un’insegnante, un’assistente e il personale di custodia) obbligatoriamente fossero di sesso femminile.
Non è difficile capire dunque perché fu scelto il nome “scuola materna”: rassicurava chi era contrario alla sua istituzione, potevano prestarvi servizio solo donne e nasceva come forma di assistenza per esigenze concrete che stavano emergendo in ogni tipo di famiglia (anche le meno abbienti).
Le cose cambiarono con la legge n.903/1977 sulle pari opportunità che consentì anche a persone di sesso maschile di insegnare nelle scuole materne. Ma nella realtà dei fatti quanti sono gli uomini che, dal 1977 ad oggi, hanno intrapreso questa professione? Vediamolo meglio.
Gli stereotipi di genere oggi non sono meno opprimenti di allora, quando per legge fu stabilito che a occuparsi dell’istruzione infantile dovessero essere esclusivamente le donne. Nel momento della scelta dell’università e della professione questi condizionamenti pesano ancora molto sugli individui, come dimostra un’indagine del Consorzio Interuniversitario AlmaLaurea, in cui leggiamo che nelle facoltà STEM – scienza, tecnologia, ingegneria e matematica – «i maschi raggiungono il 59,0%, mentre tra i laureati non STEM prevalgono le donne (sono quasi due su tre). La componente maschile è elevata in particolare tra i gruppi ingegneria (74,0%) e scientifico (68,4%)» (2). In facoltà di tipo umanistico, o nella facoltà stessa di scienze della formazione, troveremo invece una grande maggioranza di donne.
La prevalenza delle donne nel campo dell’istruzione, però, non è omogenea nelle scuole di ogni ordine e grado.
Il concorso per docenti indetto la scorsa estate ne è la prova: per quanto riguarda la scuola dell’infanzia e la scuola primaria il 96% delle domande è di donne. Nella scuola secondaria di primo e secondo grado le candidate donne sono 64%, comunque un’ampia maggioranza (3).
Ma salendo con gli ordini di istruzione, pensiamo a quante donne abbiamo trovato tra i nostri docenti universitari, o domandiamoci quante sono le donne rettrici in Italia: sette per l’esattezza, mentre gli uomini rettori sono settantasette (4). Insomma l’istruzione, come tanti altri settori, è un ambito femminile finché non si arriva al vertice, dove sono gli uomini ad occupare ancora le posizioni di potere.
Nell’ottica della società in cui ha visto la luce la scuola materna, l’educazione e soprattutto la cura dei bambini e delle bambine spetta alle madri, o in loro vece, a figure che se ne occupino professionalmente e che siano esclusivamente di sesso femminile.
Possibile che cinquantadue anni dopo, vi sia ancora lo stesso modo di vedere le cose?
D’altronde la scuola materna ha cambiato nome nel 1991, diventando ufficialmente “scuola dell’infanzia” (5).
L’intento era quello di darle un taglio più pedagogico e educativo, per far sì che non si trattasse solo di un servizio di tipo assistenziale, ma fosse volto allo sviluppo cognitivo del bambino e della bambina, grazie anche al riconoscimento della grande importanza che ha l’infanzia per lo sviluppo dell’individuo. Eppure vent’anni non sono bastati, il sistema culturale, i pregiudizi e gli stereotipi di genere sono ancora così forti che nel chiamare “scuola materna” la scuola dell’infanzia, molti non si rendono nemmeno conto di usare la parola “madre”, il che sottintende che prendersi cura di bambini dai tre ai sei anni è naturalmente una prerogativa femminile.
E il linguaggio è una spia dei cambiamenti di una società ancor più dei numeri e delle statistiche poiché scava più in profondità dentro di noi… e forse dovremmo ascoltarci più attentamente.
(1) https://www.senato.it/documenti/repository/istituzione/costituzione.pdf
(2) https://www.almalaurea.it/informa/news/2019/02/15/lauree-stem-bene-ma-donne-penalizzate
(5) Decreto Ministeriale 3 giugno 1991. Orientamenti dell’attività educativa nelle scuole materne statali.
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