Jana Černá: sesso, filosofia e femminismo

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Jana Černá

Negli anni Cinquanta nei paesi dell’Est Jana Černá scrive:

«Premetto che questo libro è nato dalla nostalgia, o – se volete – dalla noia, che del resto è la stessa cosa, dal malumore e dal capriccio, dall’insoddisfazione e dalla masturbazione. Ne avevo abbastanza di guardare la crescente perfezione delle mie unghie, sognando le pose in cui accogliere gli amici borghesi. Ciò detto sarebbe uno sbaglio pensare che si tratti di un libro esistenzialista – altra definizione inammissibile. Se i miei sogni e desideri erotici per l’assenza di un amante sono giunti così lontano che viene scritto un libro, non c’è in questo niente di esistenzialista, la cosa è del tutto logica e riguarda la psicoanalisi, piuttosto che vuote acrobazie sartriane di ozi insensati – anche in caso affermassimo che l’origine sia la stessa» (1).

In realtà, non solo questo libro, In culo oggi no, ma tutta la sua produzione letteraria potrebbe avere lo stesso incipit.


Ma chi è Jana Černá?


La scrittrice ceca, meglio conosciuta con il diminutivo Honza, nasce a Praga il 14 agosto 1928; figlia di Milena Jesenská, nota giornalista e scrittrice, nonché la famosa Milena di Kafka, e dell’architetto Jaromír Krejcar.

Jana vive in una famiglia progressista: i genitori sono fortemente impegnati nell’ambito culturale e politico, in particolar modo la figura della madre, che condizionerà la personalità della scrittrice. Jana Černá subisce l’esistenza turbolenta di questa figura femminile, le difficoltà economiche, le disillusioni politiche del suo tempo e le paure di una guerra che sta per avvicinarsi.

È in contatto diretto con la cultura ceca, tedesca ed ebraica, perché la sua casa d’origine è porto per idealismi e pensieri di intellettuali e di artisti.

Tutto questo la influenza e da donna adulta mostra tutto il suo anticonformismo provocatorio vivendo la sua vita tra coraggio e indipendenza, in dimore sempre diverse senza un posto chiamato casa, all’insegna del suo slancio passionale verso le idee e le arti.


È multiforme: donna delle pulizie, bigliettaia sul tram, scrittrice, pur di guadagnare qualcosa e rendersi autonoma.


Sposata quattro volte, finisce in carcere per negligenza nella cura dei figli e muore il 5 gennaio 1981 in un incidente automobilistico all’età di cinquantadue anni.


Perché bisogna scoprire questa straordinaria scrittrice?


Perché bisogna mantenere viva la sua reazione come intellettuale di sinistra nei confronti del nascere dello stalinismo in Boemia. Perché bisogna parlare della sua difesa della libertà individuale, passando per il desiderio e la rivoluzione sessuale. Perché come scrive Ivo Vodseďálek: «Portò al nostro piccolo cenacolo un nuovo modo di vedere non solo l’arte moderna, ma praticamente tutti i valori. […] Il suo modo di raccontare era magico. […] Sedevamo nudi intorno a un tavolo e giocavamo alla verità. Le domande erano veramente crudeli, e le risposte sempre vere» (2).

Negli anni di terrore e integralismo politico, a Praga c’è lei, Honza, che scrive di idee, sesso, femminismo e libertà, facendo diventare tutto pratica. Non è sola: al suo fianco ci sono Egon Bondy, Ivo Vodseďálek, Bohumil Hrabal e Vladimír Boudník, e insieme creano rivoluzioni nella società boema che avranno più impatto nelle generazioni future degli anni Settanta e Ottanta.


Sono punti di riferimento insostituibili, soprattutto Jana con la sua consapevolezza di donna-con-desideri, la sua volgarità, le sue provocazioni, le sue idee filosofiche e la sua vita personale.


Negli anni in cui c’è paura, violenza, persecuzione negli ambiti intellettuali, sopravvive questo gruppetto che esalta l’apoliticità, inseguendo la ricerca artistica, prediligendo la sperimentazione e l’eccesso. Via la ragionevolezza, sì allo slancio vitale.

«No grazie, difendetemi dalla peste, dal tifo e dalla ragionevolezza, ragionevolezza sono i manifesti contro l’alcolismo e gli stati centralisti […] ragionevolezza è la poesia sterile che è al servizio di un ideale positivo, risparmiatemi per carità la ragionevolezza, con la mia vitalità sono in grado di sopportare più di chiunque altro, ma di ragionevolezza potrei morire entro una settimana della morte più triste che esista, la ragionevolezza liquida dentro di me tutto ciò che dentro di me abbia un senso, la ragionevolezza mi priva della potenza, di qualsiasi potenza, da quella erotica a quella intellettuale(3)».

Via anche la poesia e la filosofia accademica: «[…] la filosofia erudita è infatti buona in ambito accademico e per i cervelli sterili della gente che in essa cerca la giustificazione della propria nullità e la poesia laboriosa è una affaticata assurdità per antologie di lettura, una affaticata assurdità per eccitare le insegnanti di economia domestica che tentano così di addolcire il proprio destino, peraltro abbastanza amaro» (4).


Poesia e filosofia non sono questo pregiudizio.


Poesia non è la serva che deve occuparsi della felicità dell’individuo e filosofia non ha un carattere di utilità, di produzione; la filosofia, infatti, scrive Jana, finisce per diventare «una ragazza di buona famiglia proletarizzata, la quale si è messa a fare la donna di servizio, cosa che per altro non sa fare, ma in compenso ci guadagna un buon profilo quadri» (5).

L’antidoto contro tutto questo? C’è lo offre sempre la scrittrice affermando che la filosofia e la poesia sono qualcosa di eccitante, legate ai sensi e al corpo, quindi alla vita personale delle persone. Chiunque voglia fare filosofia e poesia deve tener conto di una loro caratteristica importante: sono una «orgiastica eccitazione(6)», feriscono l’animo umano, fanno male alla salute, perché sono irrazionali, violente nelle loro parole, idee e non possono che essere così. Sono Eros che colpisce e lascia tramortiti, non c’è scelta, si viene catturati e si può solo seguirle nel loro percorso tortuoso. 


Insomma, poesia, filosofia e vita sono strettamente connesse.


Si sbaglia a pensare che sono frutto di ispirazione, di ragione e idee astratte; sono puro sentimento, irrazionalità. Nascono dalla meraviglia e, nel caso di Jana, dalla meraviglia dei sensi della carne, del corpo. Meraviglia che contrappone al nero del tempo che vive. Meraviglia che dà luce, dove la politica ha spento l’interruttore.

Jana Černá utilizza il sesso e le sue riflessioni filosofiche per fare la sua libertà e contribuire a rendere grandi le lotte del femminismo. Attua piccole rivoluzioni private, sposandosi quattro volte, e andando contro una tradizione che vede la famiglia solo nel concetto di coppia monogama, richiedendo ai suoi partners uno sforzo violento per liberarsi dalle convenzioni, dagli stereotipi, per ricercare un linguaggio nuovo per parlare di relazioni interpersonali, di sentimenti e di sessualità.


Come rifiutarsi di sottomettersi alla dittatura politica del suo tempo, al primato del maschio, all’ordine politico militante?


Usando i suoi liberi spazi privati, non subendo una tradizione patriarcale e maschilista che la vogliono donna e madre per bene. Attraverso versi e prosa che spaziano tra pensieri profondi e desideri sessuali, erotismo e oscenità. Attraverso il sesso e la scrittura di esso, mai separato dai sentimenti e dalla filosofia.


Una lotta anarchica non contro l’uomo ma contro una narrazione tossica che ingabbia donne e uomini, contro l’ordine patriarcale che crea una gerarchia e che mette sotto i piedi dell’uomo il volere della donna.


«[…] E poi vorrei prima chiacchierare un po’ con te
perché ho stima del tuo intelletto

Si può supporre
che sia sufficiente
per chiavare in direzione della stratosfera» (7).





(1) J. Černá, In culo oggi no, Edizioni e/o, Roma, 2011, p. 19.

(2) Ivi, p. 85.

(3) Ivi, p. 46.

(4) Ivi, p. 49.

(5) Ivi, p. 50.

(6) Ivi,p.  52.

(7) Ivi, p. 42.