Maria Zambrano: dall’esilio alle viscere della vita

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La filosofia di Zambrano è un pensiero che non chiede nulla, che non cerca niente se non il vuoto, la mancanza, l’astensione. Una filosofia che più che spiegare mostra e allude, che trasporta attraverso mistiche visioni verso luoghi dimenticati e a un sapere antico.

Nata nella Spagna dell’inizio del Novecento, Maria Zambrano intreccia come in una corona di spine le vicende politiche degli anni del franchismo spagnolo con un cammino personale di rivelazione, di esilio e di reincarnazione.

Allieva di Ortega y Gasset, Zambrano rifiuta la classica concezione di filosofia come “sistema di pensiero”, come “castello della ragione”, preferendo invece intenderla come un cammino, un sentiero fatto di immagini e suggestioni, di ascolto silente di ciò che solo un cuore aperto può preservare.


Ai margini della mistica e della poesia, la filosofia di Zambrano chiede un abbandono (1), uno scarto di tutto ciò che è in superficie per poter penetrare nelle viscere, in ciò che sta nel profondo.


Il sapere, quella manifestazione che si apre solo introducendosi nelle cose, rifiuta il domandare e le costruzioni sistemiche del filosofare, richiedendo piuttosto un ascolto attento e ricettivo del mondo, così da giungere senza mediazione alla sfera intima dell’esistente. É come insinuarsi in un bosco, in un luogo desolato e nascosto in cui è necessario perdersi se lo si vuole esplorare.

«Il chiaro del bosco è un centro nel quale non sempre è possibile entrare; lo si osserva dal limite e la comparsa di alcune impronte di animali non aiuta a compiere tale passo. É un altro regno che un’anima abita e custodisce. Qualche uccello richiama l’attenzione, invitando ad avanzare fin dove indica la sua voce. E le si dà ascolto. Poi non si incontra nulla, nulla che non sia un luogo intatto che sembra essersi aperto solo in quell’istante e che mai più si darà così. Non bisogna cercarlo. Non bisogna cercare. É la lezione immediata dei chiari del bosco: non bisogna andare a cercarli, e nemmeno a cercare nulla da loro» (2).

Per conoscere è necessario un atto di astensione, una passività che non è rifiuto o privazione, ma è ritorno al primordiale, all’indistinto. La riconciliazione con il tutto, con il nascosto, con «la ragione materna» (3), si apre solo quando si è disposti all’ascolto, alla perdita di qualsiasi volontà per affidarsi alla fertilità della solitudine e dell’esilio.


Uno sperimentare la mancanza, un abitare un non luogo verso il quale si è cacciati e che si conserva non come patria ma come spazio di decostruzione e di rinascita.


Costretta a lasciare la sua amata Spagna per fuggire dal regime di Franco, nel 1939 per Zambrano si apre un lungo periodo di esilio che la porterà, per quarant’anni, lontana dalla sua terra natia. Sarà proprio l’espatrio a vestire un ruolo centrale nel pensiero e nella vita della filosofa spagnola, a operare da rottura e da rivelazione. É, infatti, solo nello spaesamento, nella perdita di senso che si rivela alla la pensatrice il profondo, l’abisso, la matrice originaria. 

«Comincia, l’iniziazione all’esilio, quando comincia l’abbandono, il sentirsi abbandonati. […] Nell’abbandono, solo quel proprio di cui si è spossessati appare, solo ciò che non si può giungere ad essere come essere proprio. Il proprio c’è soltanto in quanto negazione, impossibilità. Impossibilità di vivere che, quando ci si rende conto di questo è impossibilità di morire. La linea di demarcazione tra vita e morte che in egual modo si respingono. Mantenersi su questa linea è la prima esigenza che all’esiliato si presenta come ineludibile» (4).

Ed è proprio nel confino, nella pura recezione passiva, che il tutto si rivela, che si manifesta come sentire originario.

Ciò che la filosofia di Zambrano propone è di andare oltre «la forma in cui tutto ciò che nasce è destinato ad incarnarsi» attraverso un «risveglio della passività» (5). Essa è perdita dell’Io e di se stessi, verso un’ entrañas (termine che torna spesso nel pensiero della filosofa e che allude, come una metafora, al viscerale, al profondo, all’interiore) che si mostra solo mediante una visione


É la «ragione poetica» (6), quella della poesia e della mistica che, insieme con la filosofia, apre alle profondità del tutto.


Una ragione che prescinde l’interrogarsi, che rifiuta lo schematismo rigido della logica e dell’oggettività, in favore di una ricezione muta del reale che solo si mostra attraverso “barlumi di visioni”. Una ragione che è quasi un captare, un accogliere un sentire originario che è al fondo dell’esistenza e che si coglie solo lasciandosi trasportare oltre alla fragilità, oltre l’incompiutezza della vita umana. 

La filosofia di Zambrano è un richiamo all’embrionale, all’equilibrio che appare nella solitudine sonora e che, aprendo la strada all’essere e nell’essere, guida timidamente verso un sapere dell’anima.




(1) M. Zambrano, I beati, SE, Milano, 2010, p. 77, dove si legge: “L’attitudine filosofica è quanto c’è di più simile a un abbandono”.

(2) M. Zambrano, Chiari del bosco, Bruno Mondadori, Milano, 2004, p. 11.

(3) L. Mortari, Maria Zambrano, Feltrinelli, Milano 2019, p. 85, dove si legge: «La ragione materna è quella che anche di fronte alla realtà più oscura sa amare la vita».

(4) M. Zambrano, I beati, SE, Milano, 2010, p. 31-32.

(5) Cfr. M. Zambrano, I beati, SE, Milano, 2010, p.13.

(6) Cfr. A. Savignano, Maria Zambrano, Ragione Poetica, Marietti, Genova, 2004.