Che nell’era della pandemia venga scritto e pubblicato un libro la cui tesi portante è che abbiamo bandito la sofferenza dalle nostre vite può apparire decisamente paradossale.
Eppure è proprio questo l’argomento cardine di La società senza dolore, saggio in cui Han si propone di analizzare come e perché abbiamo messo al bando i sentimenti negativi dalla nostra vita, trasformando il desiderio di essere felici in imperativo che ci obbliga alla felicità e ci vieta di provare il dolore in qualsiasi forma che ci dia accesso alla sua dimensione esistenziale.
Secondo Han, al giorno d’oggi viviamo nella “società della positività” dove tutto, dall’economia alla medicina, dalla psicologia alla cultura, è orientato verso l’affermazione di un ottimismo obbligatorio, che in ultima istanza ci prescrive di evitare il dolore a tutti i costi, di rimuoverlo come un fastidio non necessario e di anestetizzarci (in alcuni casi anche letteralmente, tramite uso incontrollato di antidolorifici e farmaci oppiacei) al fine di non provare più alcuna passione negativa.
Questo non significa ovviamente che non ci accade mai nulla di negativo o di doloroso, ma che il contesto socio-economico e culturale nel quale ci troviamo ci impone di non vivere questo dolore, di rifuggirlo e rimuoverlo il più presto possibile, educandoci a credere che la felicità e il successo coincidano con l’eliminazione complete di ogni sofferenza.
Al contrario di quanto accadeva in altri contesti storici, quando la pena veniva esaltata come occasione per trascendere ed elevarci, oggi la viviamo come qualcosa di insensato e inutile, una passione senza alcuno scopo e che ci ostacola nei nostri obiettivi. Di conseguenza cerchiamo di liberarcene senza concederci di viverla e di elaborarla.
Dal punto di vista personale questo rifiuto totale del dolore blocca il processo di maturazione di una più profonda consapevolezza del nostro sé. Al tempo stesso, sul piano sociale e collettivo questo ci impegna in un’affannosa ricerca individuale della felicità basata sulla falsa premessa che se non siamo felici è perché c’è in noi qualcosa di sbagliato, di mal funzionante, un qualche bug della nostra psiche. Ciò ci impedisce di allargare il nostro orizzonte ad una riflessione collettiva sui meccanismi insiti alla nostra società e sul fatto che alcune sofferenze sono in realtà collettive e non potranno mai essere risolte soltanto sul piano individuale.
Il contesto della pandemia e la nuova routine ad essa legata si inseriscono perfettamente all’interno di questo meccanismo, anziché farlo emergere come problematico e contrastarlo.
Al contrario, l’improvvisa pervasività della morte ha acuito in noi la paura di essere vulnerabili, cancellando anche l’imperativo alla felicità in nome di quello, ancora più asettico e medicalizzato, della sopravvivenza. Prolungare la nostra vita il più a lungo possibile, a tutti i costi e a discapito di tutto, è diventato un valore dominate che abbiamo accettato in modo acritico, senza più domandarci quale sia il vero significato di questa vita alla quale ci aggrappiamo così metodicamente e se valga davvero la pena di viverla.
Il testo di Han ci invita perciò ad una scelta consapevole: evitare di voltarci dalla parte opposta di fronte al dolore che inevitabilmente proviamo e guardarlo negli occhi. Dobbiamo imparare di nuovo a vivere questa passione, a dare ad essa spazio e senso, ad interpretarla e rappresentarcela in modo autentico all’interno delle dimensioni individuale e collettiva. In caso contrario, la nostra vita sarà ridotta ad un nudo dato biologico privo di senso e di reale felicità.
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