Mutilazioni genitali femminili: questione di prospettiva?
“Mutilazioni genitali femminili” (FGM) è così che l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) riconosce e identifica ufficialmente tutte quelle pratiche tradizionali che prevedono la rimozione parziale o totale degli organi genitali femminili esterni per ragioni di natura non medica. Infatti, procedure di questo tipo non vengono mai effettuate con scopi terapeutici, ma unicamente per motivi culturali e/o estetici che derivano da specifiche norme sociali di un dato gruppo etnico. Questa nota definizione, diffusa inizialmente da gruppi di attivisti in difesa dei diritti umani, non è però l’unica in circolazione.
Il mondo dell’antropologia culturale, insieme a numerose organizzazioni che lavorano direttamente con queste comunità, preferisce adottare termini più neutri come “modificazioni genitali femminili” o “taglio genitale femminile”, ritenendo che l’uso della parola “mutilazione” sottolinei il lato doloroso e dannoso dell’atto e che possa quindi essere stigmatizzante e offensivo per tutte quelle donne che non l’hanno mai percepito come una forma di violenza. Ne deriva una diatriba terminologica che nasconde dietro di sé un dibattito molto più ampio e complesso sulla questione, fatto di percezioni e prospettive divergenti che non sembrano ancora aver trovato un vero punto d’incontro.
Per comprendere meglio i termini della discussione, conviene però partire da una descrizione più accurata di questa usanza.
Storicamente, si pensa che le mutilazioni genitali siano nate in Egitto o nel Sudan settentrionale e che furono praticate da diverse civiltà del mondo antico come gli Ittiti e i Fenici. Si tratta quindi di rituali millenari che ancora perdurano in più di trenta paesi al mondo, prevalentemente in Africa, Medio Oriente e Arabia Saudita, ma che coinvolgono, seppur in misura minore, anche alcune regioni dell’Asia e dell’America Latina. Non sono escluse neppure l’Europa, il Nord America, l’Australia e la Nuova Zelanda, dove però si ha notizia di pochi casi sporadici legati quasi unicamente ai flussi migratori.
L’incidenza del fenomeno, quindi, varia enormemente da paese a paese, ma si stima che complessivamente negli ultimi sessant’anni tra i 100 e i 140 milioni di donne vi siano state sottoposte e che ogni anno circa 3 milioni di bambine e ragazze in tutto il mondo potrebbero subirla. La fascia d’età delle donne coinvolte (solitamente compresa tra i 5 e 14 anni, ma talvolta anticipata ai primi anni di vita) e la tipologia di procedura eseguita dipendono da molti fattori come l’area geografica, il gruppo etnico specifico e quindi la cultura di riferimento. Attualmente si considerano almeno quattro categorie di mutilazioni, individuate dall’Oms «a seconda della severità dell’operazione, che va dall’asportazione parziale o totale della clitoride al restringimento dell’orifizio vaginale con una pratica meglio conosciuta come infibulazione femminile» (1).
Nonostante le possibili differenze appena citate, ci sono alcune costanti che accomunano quasi tutti i cerimoniali.
Nella maggior parte dei casi l’evento rimane piuttosto segreto e viene gestito esclusivamente dalle donne della comunità, spesso le più anziane, appositamente incaricate per effettuare le procedure in cambio di ingenti pagamenti. Un’altra costante è rappresentata dagli strumenti utilizzati, solitamente oggetti rudimentali non sterili come coltelli, forbici e lamette quasi mai accompagnati da anestetici o antibiotici. Da queste scarse condizioni igienico-sanitarie e dalla pratica in sé, derivano inevitabilmente gravi conseguenze per la salute fisica, tra cui dolori acuti, emorragie, infiammazioni dei tessuti circostanti, e infezioni di diverso tipo e serietà che possono condurre a problemi a lungo termine, come difficoltà nei rapporti sessuali e nel parto, oppure a danni permanenti come l’infertilità o addirittura la morte. La traumaticità dell’evento e l’atroce dolore provocano altrettante difficoltà psicologiche come disturbi cognitivi, del sonno, dell’appetito, dell’umore oppure problemi di identità ed autostima.
Le ragioni che spingono a praticare le mutilazioni genitali femminili, e che ancora le tengono in vita, sono molteplici e non hanno mai a che fare con la religione, come spesso si tende a credere associando erroneamente questo tipo di rituali all’Islam. In molte comunità la circoncisione segna il passaggio dall’infanzia all’età adulta e permette di acquisire un ruolo e un’identità definita all’interno della società. Solo in questo modo è possibile essere riconosciuti dagli altri come donna e quindi come individuo pronto al matrimonio, capace di gestire la casa, i figli e il marito e di conservare le tradizioni e il legame con le generazioni precedenti. Si tratta di un atto che ammette alla vita sociale e che introduce alle relazioni con gli altri membri del clan, soprattutto con le altre donne.
Non sorprende che in un contesto come questo l’assenza del taglio genitale possa divenire motivo di discriminazione, esclusione e di biasimo da parte della comunità.
Ed è per questo che talvolta la sola pressione sociale, derivante dalla vergogna e dal desiderio di accettazione, è sufficiente a spingere le famiglie a sostenere la tradizione. L’idea che la rimozione dei genitali esterni possa aumentare la fertilità e favorire l’igiene e l’attrazione estetica è una percezione altrettanto comune, ma l’altra motivazione fondamentale riguarda la sessualità della donna e il controllo su di essa. In molti casi l’onore e la reputazione della famiglia o del gruppo dipendono dalla verginità e castità delle ragazze prima del matrimonio, preservate più facilmente grazie alla pratica delle mutilazioni. Laddove la purezza sessuale non rappresenta una priorità, le FGM rimangono validi strumenti per ridurre il desiderio sessuale femminile, in modo da garantire la fedeltà al marito e da diminuire le richieste sessuali nei suoi confronti, permettendogli di avere diverse mogli.
Alla luce delle cause e delle conseguenze, la comunità internazionale condanna fermamente questa pratica e la considera un’indiscutibile violazione dei diritti umani che minaccia non solo l’integrità fisica e la salute riproduttiva di una donna, ma anche la sua sicurezza e il suo diritto a essere libera da trattamenti crudeli e degradanti. Inoltre, le mutilazioni femminili identificano un’eclatante disuguaglianza tra i generi e una forma estrema di discriminazione verso le donne. Quest’ultima non si esaurisce nella pratica subita ma viene alimentata anche dalle conseguenze sociali che ne derivano, come il matrimonio forzato e l’abbandono degli studi, considerati inutili per una donna ormai pronta alla vita domestica. Private dell’educazione e costrette all’interno di ruoli dai netti confini in età precoce, molte delle donne sottoposte a circoncisione si trovano impigliate in una fitta rete d’ingiustizia che impedisce l’emancipazione economica e in generale la libera realizzazione del proprio potenziale nella società.
Questa netta posizione è contestata da chi sostiene che le valutazioni sulle mutilazioni genitali femminili siano una questione relativa al punto di vista e che l’indignazione e i giudizi negativi rappresentino l’ennesima espressione di uno sguardo occidentale con pretese universali.
Questa tesi, infatti, vede nella lotta per l’eliminazione della pratica un atto d’imperialismo culturale, spinto da una morale e da dei principi diversi da quelli dei popoli che le praticano. Insistere per l’abolizione equivarrebbe quindi a imporre dei valori esterni e differenti, dati per giusti e migliori, e minaccerebbe le identità culturali, orientando alla censura delle differenze e a una visione sempre più omologata.
Una prospettiva più comunitaria, che non esalta libertà individuale e indipendenza, ma che definisce il sé a partire dal contesto e dal gruppo d’appartenenza, è indiscutibilmente arretrata? La gratificazione e la libertà sessuali sono necessari al benessere complessivo di una persona? Secondo chi?
Molti antropologi risponderebbero che la concezione di sessualità è un costrutto sociale che dipende da vari elementi culturali e storici e infatti tornando indietro di qualche secolo o decennio l’idea che una donna debba trarre piacere dal sesso suonerebbe inaccettabile anche in Occidente, mentre la notizia di una clitoridectomia per “curare” disturbi mentali o morali passerebbe inosservata.
Inoltre, chi argomenta da questo lato del fronte azzarda persino un paragone tra le mutilazioni e tutte quelle pratiche non terapeutiche di modifiche genitali, come i piercings, la chirurgia estetica o i tatuaggi genitali. Anche l’appello al diritto all’autodeterminazione, e quindi al riconoscimento della capacità di scelta autonoma e indipendente di una persona, potrebbe venire coinvolto per difendere la pratica in questione. In alcuni casi una donna potrebbe scegliere volontariamente di aderire a un certo sistema di valori consapevole delle pratiche previste, e potrebbe quindi averne una percezione lontana dalla coercizione e dalla crudeltà.
Ma è davvero solo questione di prospettiva? Fino a che punto è possibile legittimare azioni e comportamenti per preservare le differenze culturali e la molteplicità di valori? Qual è il confine tra rispetto di una specifica identità e la tutela della persona umana e della sua dignità?
(1) Amref Italia, Mutilazione genitale femminile: cosa sono. Tutte le informazioni utili (amref.it)
FONTI:
– Anne Firth Murray, From outrage to courage: The Unjust and Unhealthy Situation of Women in Poorer Countries and What They are Doing About It, Common Courage Press, 2008.
– Anika Rahman e Nahid Toubia, Female Genital Mutilation – A guide to laws and policies worldwide, Zed Books, Londra, 2000.
– WHO report on Female Genital Mutilation, Febbraio 2016, http://www.who.int/mediacentre/factsheets/fs241/en
– Priyanka Pruthi, Child protection from violence, exploitation and abuse – New UNICEF report on female genital mutilation/cutting, 2016.
– Mutilazioni Genitali Femminili | Cosa sono, perché, paesi nel mondo, Oms (osservatoriodiritti.it)
– Mutilazione genitale femminile: cosa sono. Tutte le informazioni utili (amref.it)– Melissa Parker, Rethinking female circumcision, Cambridge University Press on behalf of the International African Institute, Vol.65, n.4, 1995
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