E pensare che Feuerbach era terrorizzato dall’idea che di tutta la sua opera filosofica venisse ricordata, alla fine, solo la massima “L’uomo è ciò che mangia”. Non vi è dubbio che questa espressione sia penetrata nel senso comune, precedendo la fama del filosofo bavarese. Ma cosa significa veramente questa frase che oggi spesso usiamo anche a sproposito? La profondità che la riflessione feuerbachiana riserva è oltremodo interessante.
L’occasione in cui il nostro filosofo esprime il noto Mensch ist, was er isst è l’articolo La scienza e la rivoluzione (1850) in cui recensisce lo scritto del fisiologo Jacob Moleschott La scienza dell’alimentazione. Dodici anni dopo ne esplicita il senso simbolico nel saggio Il mistero del sacrificio, ovvero l’uomo è ciò che mangia.
E adesso attenzione, il contesto filosofico del tempo funge da premessa generale. La riflessione feuerbachiana vuole essere antisistemica rispetto all’idealismo che aveva preteso di ricondurre l’intera realtà allo Spirito, schiacciando l’uomo, la sua carne e i suoi bisogni, sotto l’impalcatura dell’Intero. Ecco che le sue riflessioni tentano di recuperare il materialismo e la corporeità, entrambi mortificati dall’hegelismo.
Mangiare ed essere.
Attraverso la lettura degli scritti di Feuerbach, e lasciandoci guidare dallo studioso Andrea Tagliapietra (1), possiamo individuare tre dimensioni di senso. La prima è da ricercare innanzitutto nell’assonanza fonetica che esiste nella lingua tedesca tra ist la terza persona singolare dell’indicativo presente del verbo sein (essere) e isst la terza persona singolare di essen (mangiare). Un gioco linguistico che Feuerbach rimarca e che testimonia una vicinanza ontologica tra le due categorie. Anche nel latino si presenta un’ambivalenza significativa: homo est quod est, dove il secondo est è la terza persona del verbo edo, ancora una volta “mangiare”.
La seconda dimensione di senso è invece letterale: la massima ci suggerisce con assertività un’effettiva corrispondenza tra ciò che siamo e ciò che mangiamo. Il nostro organismo, le nostre cellule as-similano le sostanze e noi diveniamo dunque, continuamente, “sostanza” grazie al processo di digestione e di assimilazione. Che mangiare in modo sano dovrebbe essere una scelta relativa al nostro ben-essere, è un concetto di cui si inizia ad avere sempre più consapevolezza e che caratterizza molte campagne di marketing dei vari prodotti che portiamo a tavola.
Sapere e sapore.
Ma Feuerbach va ancora più a fondo: ed eccoci al terzo livello interpretativo. L’uomo è ciò che mangia nel senso che le comunità umane costruiscono la loro identità sociali e culturali anche intorno al cibo, a ciò che mangiano. E di conseguenza anche intorno a ciò che non mangiano. Rovesciando la massima avremo infatti che “l’uomo è – anche – ciò che non mangia”. Pensiamo alle prescrizioni, ai divieti, a certi rituali che rimandando a una dimensione simbolica e spirituale del cibo. La cucina kosher, gli aspetti gastronomici dell’halal nella cultura islamica e potremmo continuare a lungo. Ma oggi possiamo anche pensare a quelle piccole e grandi comunità costituite intorno alle etichette odierne: vegetariani, vegani, ovo-latto-vegetariani, fruttariani, e chi più ne ha più ne metta.
La domanda di fondo è: se mangi ciò che mangio io, sei come me? Non vi è dubbio che la cultura alimentare ci accomuna. E non vi è dubbio che il cibo sia cultura. Nella lingua italiana l’assonanza tra sapere e sapore rende bene il concetto e le metafore tra cibo e conoscenza sono davvero numerosissime. Tagliapietra inoltre ci ricorda che non esiste civiltà che non abbia manipolato materialmente e quindi simbolicamente il cibo, tanto che l’antropologo Levi Strauss è giunto a individuare il momento della nascita della cultura umana nel passaggio dal cibo crudo a quello cotto (2).
Gastroteologia.
Ma l’uomo non si nutre di solo pane. L’apice delle riflessioni feuerbachiane intorno alla metafora del cibo riguarda il cruccio di Feuerbach, ovvero la teologia. Ne Il mistero del sacrificio pone al centro della sua riflessione il rito cristiano dell’eucaristia, l’atto con cui il credente, in forma simbolica, mangia e beve il corpo e il sangue di dio. Ancora una volta, egli interlegge nel simbolismo religioso un’antropologia mascherata, uno specchio in cui l’uomo riflette i propri bisogni corporei, svelando la ragione teologica della ritualità religiosa. Gli attributi di dio sono ridotti ad attributi umani (corpo e sangue) e il rito viene a configurarsi come una forma di autofagia. Siamo giunti al punto in cui l’analisi feuerbachiana approda in quella che egli stesso, in una nota, definisce gastroteologia, estendendo il suo materialismo gastrologico al discorso sul divino.
Noi e il cibo oggi.
Guardando alla nostra contemporaneità leggere Feuerbach oggi ci costringe a interrogarci sul rapporto che abbiamo con il cibo. E viene da pensare che nella società del benessere e dei consumi, fatta eccezione per alcuni gruppi religiosi o di indirizzo di pensiero, oggi questo rapporto abbia forse perso quasi del tutto quella connotazione spirituale e simbolica, per abbracciarne una in qualche misura nuova, fortemente legata all’estetica. Complice di ciò i mass media e i social network, attraverso i quali il cibo si è guadagnato un palcoscenico inedito, uscendo dalla sfera privata della tavola e della convivialità per approdare in uno show che va in onda incessantemente.
Non è più solo l’atto del mangiare, del nutrirsi, del gustare, dell’assaporare. Dell’as-similare e del ben-essere. Ma una nuova dimensione sensoriale e insieme simbolica viene a essere stimolata: il guardare e il desiderare. L’espressione tanto usata sui social, “food porn”, pornografia del cibo, sintetizza in modo abbastanza eloquente questa nuova dimensione.
Feuerbach riprende un antico detto tedesco secondo cui “mangiare e bere tengono insieme anima e corpo, ma non solo anima e corpo – aggiunge – anche Dio e uomo, io e tu” (3). Oggi anche anche la convivialità viene sempre più sottratta all’atto del mangiare, soprattutto negli ultimi tempi a causa della pandemia e delle conseguenti misure di contenimento del contagio. Per cui, mangiamo sempre più da soli, condividendo sempre più virtualmente ciò che mangiamo.
È chiaro che “siamo ciò che mangiamo” oggi investe anche altri importanti temi: la questione ambientalista e le scelte consumistiche, la ricerca tecnologica e il novel food.
Ma Feuerbach, pur rimarcando la corporeità dell’uomo e la sua animalità, ci ricorda che non viviamo di solo pane. E viene in mente un famoso studio del secondo dopoguerra dello psicanalista austriaco René Spitz sulla deprivazione materna (4). Spitz osservò che i bambini orfani o sottratti improvvisamente e a lungo termine da chi si occupava di loro, pur ricevendo nutrimento sufficiente dagli operatori degli orfanotrofi, ma in assenza di contatto fisico e di stimoli emotivi, finivano per ammalarsi di depressione anaclitica e nei casi più gravi a morire di marasma. Il cibo è senza dubbio metafora di vita. Già prima di venire al mondo ci nutriamo dell’altro, del prossimo, di emozioni, di amore, e poi ancora di ricerca di senso e di spiritualità.
(1) L. Feuerbach, L’uomo è ciò che mangia, Introduzione a cura di Andrea Tagliapietra, Bollati Boringhieri, Torino, 2017.
(2) Ivi, p. XXVII.
(3) Ivi, p. 29.
(4) R. Spitz, Dialoghi dell’infanzia, Raccolta di scritti a cura di Robert N. Emde, Armando editore, Roma, 2000, p. 98.
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