La depressione: quante volte la nominiamo? Quante volte sentiamo o diciamo “sono depresso”? Chi di noi non ha mai avuto a che fare direttamente o ha sentito del tal dei tali che soffre di depressione?
È vero: a volte utilizziamo a sproposito questa parola e ne abusiamo. Forse perché non sappiamo cosa sia effettivamente la depressione, forse anche perché ci pare di conoscerla – nel nostro piccolo – ogni qualvolta ci sentiamo spossati, prostrati e vuoti.
Perché questo disturbo ci pare così diffuso? Perché ne siamo tutti informati?
Se da una parte si coglie che la depressione è legata a qualcosa di personale come lutti, traumi, situazioni di disagio, non di rado sentiamo dire che è questa assurda società a renderci depressi. La depressione è qualcosa, insomma, di tipico degli uomini della nostra epoca. L’ansia del quotidiano, la pressione dei rapporti sociali, l’incertezza e la limitatezza del nostro tempo a volte ci demoralizzano. È forse anche questo provare momenti di profondo sconforto e di “simil-depressione” che ci rende il termine tanto familiare?
Forse, ma la depressione patologica è, in realtà, qualcosa di più. Ha delle basi biologiche, può essere causata da disfunzioni fisiologiche: tumori, problemi ormonali o nervosi (1). La ricerca farmacologica ha fatto passi da gigante e si sono trovate cure con sempre meno effetti collaterali.
L’impressione, però, è che questa malattia non sia proprio come le altre. Non si guarisce, non prendi un farmaco e, puf, se ne va. Spesso si cronicizza e pare diventi parte della vita stessa, un continuo male di vivere.
Alain Ehrenberg, in La fatica di essere se stessi. Depressione e società (2), analizza tutto ciò, dando una chiave di lettura interessante, non l’unica ovviamente, fornendo alcune considerazioni che risultano essere estremamente illuminanti.
Il sociologo tratta l’argomento in particolare dal proprio punto di vista e, a partire da ciò che più conosce, compie un excursus storico-sociale per mostrare quanto sia cambiata nel tempo la nozione di soggetto e le sue “malattie”.
Nello specifico, da evidenziarsi è il mutamento tra l’uomo di inizio Novecento e l’individuo di fine secolo.
La concezione del soggetto di inizio Novecento è legata al binomio permesso/vietato. In un contesto di governi autoritari, di forte influenza della religione e della sua rigida morale, l’uomo si sente soffocato dalle regole. Deve trattenersi, lotta contro se stesso perché la società non gli permette di essere o di compiere ciò che lui davvero vorrebbe. Da qui nascono i problemi di cui ha parlato egregiamente Sigmund Freud che, con i suoi concetti di Io, Es e Super Io, ha descritto il conflitto interiore vissuto dall’uomo di quel tempo. Questa battaglia interna portava l’individuo alla nevrosi e a conseguenti problemi psicologici.
Con il tempo, però, le cose si sono complicate. Con la democratizzazione della maggior parte degli stati occidentali e la perdita di potere della religione, l’uomo si è ritrovato con sempre meno regole. Questa nostra nuova libertà personale, però, non ha solo risvolti positivi: porta ad un crescente individualismo e sovraccarica il soggetto di responsabilità e potere su se stesso.
In una società così libera, non tutti ce la fanno. Dove tutto è permesso e tutto è possibile, sta nel singolo il compito di scegliere chi essere e come esserlo. Questo, però, può diventare un peso insostenibile.
«L’emancipazione ci ha forse affrancato dai drammi del senso di colpa e dello spirito d’obbedienza, ma ci ha innegabilmente condannato a quelli della responsabilità e dell’azione. È così che la fatica depressiva ha preso il sopravvento sull’angoscia nevrotica» (3).
I nostri “eroi” ormai sono gli imprenditori, quelli che si fanno da soli, e tutti puntiamo a realizzarci, a diventare qualcuno, invece di subire la nostra esistenza come un destino (4); di conseguenza «il depresso è l’esatto contrario delle nostre norme di socializzazione» (5).
In questo nuovo contesto, il pensiero di Freud sembra essere in parte superato e alla psicoanalisi, che aveva come scopo quello di risolvere i conflitti, si sono sostituite cure che vanno a riempire il vuoto tipico dell’uomo dei nostri tempi. Questo perché più in generale, i soggetti vengono invitati a risolvere da soli i propri problemi e vengono semplicemente affiancati in un lungo cammino (6). Difatti, gli psicofarmaci non sono ancora “perfetti”: migliorano, ma sono spesso cure a vita. Alla guarigione si sostituisce la cronicizzazione, che è simbolica della società della libertà. Sta all’individuo sopportare o soccombere; sta solo a lui scegliere cosa fare della propria vita.
Siamo, insomma, tutti soggetti incerti in questa nuova società; e se è vero che Ehrenberg scrive di qualche decennio fa, la situazione è ancora abbastanza simile.
Siamo soggetti incerti perché liberi, per fortuna, ma anche perché sentiamo una pressione continua verso una realizzazione illimitata di noi stessi. Ci sono, però, persone che in questa incertezza si perdono, rimangono impantanati e sentono il vuoto sotto di loro.
Le teorie di Ehrenberg sono illuminanti e la forma con cui le narra – intensa ed emozionante – è molto convincente, ma è facile individuarne un limite: quello della semplificazione e di voler dare un’interpretazione un po’ troppo univoca e poco scientifica. D’altronde, il sociologo è “scusato”: è effettivamente difficile fornire una spiegazione ad un disturbo complesso e sfaccettato come la depressione.
La fatica di essere se stessi, con gli ostacoli naturali di chi tenta di orientarsi in un terreno dissestato, fa comunque riflettere su un rapporto che a volte intuiamo anche semplicemente grazie alla nostra esperienza personale.
Se è anche l’impostazione della nostra vita oggi – con questo spietato individualismo – a rendere le persone depresse e vuote, possiamo tentare di unirci in una social catena, colmando quel vuoto comunicativo: perché «una società di individui non è fatta per fabbricare soltanto monadi (7)». In questo momento ne abbiamo bisogno tutti.
(2) A. Ehrenberg, La fatica di essere se stessi. Depressione e società, Torino, Einaudi, 1999.
(3) Ivi, p. 313.
(4) Ivi, p. 300.
(5) Ivi, p. 320.
(6) Ivi, p. 308.
(7) Ivi, p.319.
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