Il rimpianto di non essere tutto

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L'occhio e lo spirito

Nel 1960, Maurice Merleau-Ponty porta a termine un breve e agile saggio, il cui titolo è L’occhio e lo spirito (1). Sarà dato alle stampe nel gennaio del 1961, nel primo numero di Art de France, solo quattro mesi prima che un attacco cardiaco lo colpisca improvvisamente; per questo motivo, lo leggiamo retrospettivamente come una singolare forma di congedo dal mondo filosofico.

Singolare è il fatto che L’occhio e lo spirito abbia poco dello stile narrativo cui il filosofo francese ci ha abituati sin dalla sua opera più importante, La fenomenologia della percezione. Allo stile denso e corposo delle sue opere precedenti, Merleau-Ponty sostituisce un andamento leggiadro, quasi poetico, nel quale restano i grandi interrogativi fenomenologici, ma come delicatamente sospesi tra le righe, senza appesantire la prosa, senza egemonizzare il discorso. Il saggio nasce come riflessione sull’arte, tema al quale il nostro filosofo ha sempre riservato un’attenzione speciale, ma ben presto si libera di ogni rigida classificazione per diventare un affascinante compendio dell’intera filosofia merleau-pontiana. Sembra, come fa notare Claude Lefort nella postfazione, che egli abbia dovuto dimenticare le opere precedenti, per «riconquistare la pienezza dell’incantamento», per cercare nuovamente «le parole dell’inizio». (2)

Il saggio si apre così: 

«La scienza manipola le cose e rinuncia ad abitarle. Se ne costruisce dei modelli interni […] e si confronta solo di quando in quando con il mondo effettuale. Essa è, ed è sempre stata, […] quel partito preso di trattare ogni essere come “oggetto in generale”, cioè come se non fosse niente per noi e tuttavia si trovasse predestinato ai nostri artifici.» (3)


Eccola, la premessa fenomenologica per eccellenza, ci siamo.


Restano fondamentali la pars destruens del discorso, volta a rifiutare l’edificio autoreferenziale della scienza e a ribadire l’urgenza che la scienza comprenda se stessa e non assolutizzi la propria situazione conoscitiva. Ma questo periodo è forse l’ultimo strascico che Merleau-Ponty si concede, prima di rivoluzionare la propria prosa. Solo due pagine più avanti, infatti, c’è una mirabile sintesi del suo intero pensiero, che funge da premessa per addentrarsi finalmente nell’analisi della dimensione artistica:

«È necessario che il pensiero scientifico si ricollochi in un “c’è” preliminare, nel luogo, sul terreno del mondo sensibile e del mondo lavorato così come sono nella nostra vita, per il nostro corpo, […] questo corpo effettuale che chiamo mio, la sentinella che vigila silenziosa sotto le mie parole e sotto le mie azioni.» (4)

L’arte attinge proprio a questo livello preliminare del mondo esperibile, un livello bruto, immediato, che non ha bisogno di mediazioni, e che fa venire in mente il dionisiaco di cui parla Nietzsche: inesplicabile, sovrabbondante di vita, e perciò pericoloso, in quanto minaccia di scuotere fin dalle fondamenta le nostre certezze. (5)  L’arte, ci spiega Merleau-Ponty, e la pittura in particolar modo, gode della titolarità di un diritto sui generis, quello di guardare le cose senza l’obbligo di valutarle. Quel corpo che sappiamo essere un nodo di significati viventi, il nostro punto di vista sul mondo, è prestato dal pittore al mondo stesso. E il pittore riesce a trasformare il mondo in pittura perché il suo occhio è stato toccato da un certo impatto col mondo, e ce lo restituisce attraverso la sua mano. Ecco perché molti pittori sostengono di essere guardati più che di guardare. Significativamente: 

«Quel che si definisce ispirazione dovrebbe venir preso alla lettera: c’è realmente inspirazione ed espirazione dell’Essere, respirazione dell’Essere.» (6)


La magia dell’arte riesce a verificarsi perché sussiste una certa ambiguità tra il soggetto che vede e l’oggetto che è visto: le due posizioni si fondono e si compenetrano.


Ognuno di noi può dirigere il proprio corpo nel visibile perché fa parte del visibile: il mio corpo è una cosa tra le altre perché è visibile e mobile ma, vedendo e muovendo a sua volta, le cose sono in qualche modo incrostate nella sua carne. 

Da questo incrocio tra corpo e mondo, raccontato dal filosofo con uno stupore tale da farci credere che vi assistesse per la prima volta, ecco realizzarsi il miracolo della vita. Un miracolo la cui sopravvivenza è fragile – ne è consapevole Merleau-Ponty come ne siamo consapevoli tutti – ma che è reso imperituro grazie all’arte. Difatti, L’occhio e lo spirito si conclude enigmaticamente così: 

«Questa è la delusione del falso immaginario, che reclama una positività per colmare il suo vuoto. È il rimpianto di non essere tutto. Rimpianto che è infondato. […] Se le creazioni non sono un dato acquisito, non è solo perché passano, come tutte le cose, ma perché hanno pressoché tutta la loro vita dinanzi a sé.» (7)







(1) M. Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito, SE, Milano, 1989.

(2) C. Lefort, Postfazione, in L’occhio e lo spirito, SE, Milano, 1989.

(3) Ivi, p. 13.

(4) Ivi, p. 15.

(5) F. Nietzsche, La nascita della tragedia, Einaudi, Torino, 2009.

(6) M. Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito, p. 26.

(7) Ivi, p. 63.