Vulnerabilità al tempo dei social

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La top model Bella Hadid pubblica su Instagram un post: un breve video e poi dei selfie in cui si ritrae in lacrime, con il viso gonfio e gli occhi stanchi (1). Le foto, divenute subito virali, raggiungono più di un milione di like. Nel post sono riportate le parole dell’attrice Willow Smith, che in una video-intervista aveva parlato apertamente delle sue insicurezze e delle sue ansie che, sottolinea, accomunano tutti e tutte. 

Il messaggio è potente, chiaro, significativo. Non solo perché rompe l’immagine di perfezione in cui vengono incasellate le vite delle “celebrities”, mostrandoci come la realtà sia diversa da quella mostrata sui social, come la stessa modella afferma. Ma anche e soprattutto perché ci racconta di una parte di noi che abbiamo imparato a nascondere: quella fatta di insicurezze e di paure, di ansia e di tristezza.
Mettersi in contatto con la propria fragilità, fare i conti con i propri limiti e prenderne consapevolezza, è un’abitudine che abbiamo messo da parte, indossando maschere sempre nuove dinanzi a noi stessi.


I social sono senza dubbio il riflesso della ricerca di perfezione che accompagna la cultura occidentale sin dagli albori, del mito del progresso senza limiti e dell’incorruttibilità umana, che ci allontana dalla nostra fragilità proponendoci continuamente vite da sogno, piene di successo e lusso sfrenato. 


Tuttavia vale la pena riflettere sulla ritrovata sensibilità verso il tema della fragilità e della vulnerabilità, che proprio i social stanno contribuendo a svelare. Ripensarsi al di là del “mito prometeico”, dell’ideale di umanità investita dalla corsa al progresso e all’incessante miglioramento, è un passo che ora più che mai è necessario. 

In questa messa a nudo dei propri limiti, che è riscoperta della propria umanità, la filosofia non può che contribuire, proponendo, insieme con le scienze sociali, una riscoperta del tema della vulnerabilità.

«Attingendo all’etimologia, vulnerabile è chi è esposto alla ferita, chi è nudo di fronte alla possibilità di essere toccato profondamente, leso negli affetti, nelle condizioni psicologiche, spirituali, economiche, sociali. Vulnerabile è innanzitutto la condizione ontologica dell’uomo come essere fragile e mancante.» (2)


Ripensare l’umano alla luce della sua condizione di fragilità e di limitatezza, è una necessità sempre più sentita, soprattutto in una società pervasa dalle patologie moderne dell’individualismo e del narcisismo.

«L’Io postmoderno viene descritto come un individuo mosso da un impulso illimitato all’autorealizzazione, entropicamente chiuso nel circuito autoreferenziale dei propri desideri che esclude ogni alterità, indifferente alla sfera pubblica e al bene comune e incapace di progettualità. Edonista e narcisista» (3), incapace di vivere con gli altri e nel mondo.

A questo io, sempre più isolato ed estromesso dalla propria singolarità, non resta che il riflesso vuoto della sua incompiutezza, che maschera con l’ideale di forza e di pienezza la perdita della sua identità. 

Riscoprire la vulnerabilità, allora, diviene il primo passo per una presa in carica della propria umanità, una riscoperta del sé e degli altri, sotto un nuovo sguardo, più etico e responsabile. 


Quello che si chiede, infatti, è di fare della propria vulnerabilità, della propria limitatezza ontologica, una virtù.

«Se vulnerare [dal latino] significa “ferire”, assumere la vulnerabilità, ossia esercitare la virtù della vulnerabilità, vuol dire saper fare della propria precarietà un’occasione.» (4)

Pensarsi vulnerabili è innanzitutto pensare al proprio limite come una possibilità: è proprio nell’essere limitati, nell’avere dei vincoli, che l’essere umano si caratterizza come ente dotato di libertà e di amore. 

La riscoperta del proprio limite, e di pari passo la scoperta del limite dell’altro, ci caratterizza innanzitutto come individui sociali: «siamo tutti uguali nella debolezza e nella vulnerabilità» (5), e proprio in quanto vulnerabili, la nostra esistenza è sempre dipendente dall’altro

È nella vulnerabilità, quindi, che l’essere umano apprende la possibilità di esistere come comunità, come intessuto in una rete sociale che, prendendosi cura dell’altro e di sé, permette l’esistenza umana. Il limite diventa, allora, il punto primo in cui incontrare l’altro, che al tempo stesso restituisce un’immagine di sé e della propria singolarità. 


La vulnerabilità, quindi, diventa un appello, un richiamo alla cura e alla presa in carico dell’altro, alla costruzione di un’interdipendenza che è sempre amore e condivisione del mondo.

«L’Io che risponde all’appello dell’altro è un Io che si percepisce come costitutivamente vincolato, dipendente dall’altro, ma che è allo stesso tempo unico e singolare; è un Io che scopre la propria libertà nel momento stesso in cui si assume la responsabilità, consapevole al contempo della propria dipendenza e della propria insostituibilità.» (6)

Solo in quanto vulnerabili siamo capaci di amare, di incontrare l’altro nella spontaneità del gesto del prendersi cura. Amare l’altro, e allo stesso tempo amare se stessi, è allora l’unico modo in cui è possibile salvare il mondo.







(1) Link al post Instagram: https://www.instagram.com/p/CWDznHVlWa8/

(2) M.C. De Nardo, Antropo-etica della vulnerabilità al tempo del Covid-19, in Revista Portuguesa de Filosofia, 2021, Vol. 77 (2-3), p. 821.

(3) E. Pulcini, La cura del mondo. Paura e responsabilità nell’età globale, Bollati Boringhieri, Torino, 2009, p. 32.

(4) M.C. De Nardo, Antropo-etica della vulnerabilità al tempo del Covid-19, in Revista Portuguesa de Filosofia, 2021, Vol. 77 (2-3), p. 821.

(5) E. Pulcini, La cura del mondo. Paura e responsabilità nell’età globale, Bollati Boringhieri, Torino, 2009, p. 193.

(6) Ivi, p. 20.

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