Simone Weil fu una personalità inattuale rispetto alle correnti filosofiche del secolo scorso. In prima linea per verificare e fondare il suo pensiero, esperì quella condizione alienante dei lavoratori che gli intellettuali di sinistra difendevano da lontano, scegliendo volontariamente di sentire sulla propria pelle cosa significasse essere un’operaia nelle fabbriche parigine.
E grazie a questa esperienza, vissuta a metà degli anni Trenta del Novecento, la filosofa percepisce la disumanizzazione del lavoro, facendosi portavoce di una filosofia del diritto controcorrente: scardina la nozione di diritto, che ella vede come «legata a quella di spartizione, di scambio, di quantità. […] Qualcosa di commerciale. [Qualcosa che, ndr] di per sé evoca il processo, l’arringa. [Che, ndr] si regge soltanto su un tono di rivendicazione» (1).
Anche nella sua contemporaneità Simone Weil avverte la violenza sottesa a questa specifica concezione di diritto: la Francia collaborazionista si era conformata al diritto del più forte (2), senza tenere in considerazione i dettami della giustizia. Qualsiasi forma di governo totalitaria tende a configurarsi come luogo del diritto del più forte, non del giusto: gli anni del nazismo, le deportazioni e le persecuzioni sono emblematici di come il diritto sia stato scisso dalla nozione di giustizia, piegandosi alla violenza. Gli stessi diritti giuridici dell’uomo (3) sono veicolati sulla base di termini legati a un tipo di soggettività individualista, focalizzata sull’autonomia e caratterizzata da un disinteresse rispetto al rispondere dell’altro, e quindi non concentrata sull’essere umano come essere dotato di una responsabilità verso i bisogni altrui.
Per ristabilire l’ordine del giusto, al concetto di diritto, ormai ambiguo, Weil contrappone il dovere, un obbligo verso l’altro che vale indipendentemente dalle circostanze, e che è il terreno su cui si poggia un’etica dei diritti umani verso l’uomo in quanto tale.
Le fondamenta di tale etica, capace di dar conto della dignità dell’uomo, vanno ricercate in una concezione di soggetto decentrato e rivolto verso l’altro: è qui allora che il diritto diventa obbligo, chiamando in causa l’umanità nella sua interezza ed essenza.
«Un uomo, considerato di per se stesso, ha solo dei doveri, fra i quali si trovano certi doveri verso se stesso. Gli altri, considerati dal suo punto di vista, hanno solo dei diritti. A sua volta egli ha dei diritti quando è considerato dal punto di vista degli altri, che si riconoscono degli obblighi verso di lui» (4).
Questa volontà proiettata verso l’altro va a concretizzarsi nella responsabilità individuale di non nuocere all’altro: «in ogni anima umana si leva di continuo la richiesta che non le sia fatto del male» (5), e preservare la giustizia, adempiendo al dovere che abbiamo nei confronti dei nostri simili, significa proteggere gli uomini da ogni male, impedendo che ne venga fatto loro (6).
Quest’idea di responsabilità verso gli altri è così ampia e totalizzante da raggiungere la sfera umanitaria, superando anche la dimensione individuale dell’io per aprirsi all’altro: l’io è portato a essere decentrato da se stesso, così da lasciare uno spazio interno al proprio spirito per poter accogliere un sentimento di amore disinteressato e di attenzione verso l’altro.
Colui che si è decentrato e che riesce a percepire l’altro, si sente incaricato del dovere di fare del bene all’uomo (7). In questo senso, «il dovere è un donarsi, perché è il risultato di uno sforzo di attenzione mirato al riconoscimento dei bisogni che ogni essere umano, in quanto dotato di corpo e anima, avverte ed esprime» (8). Nella prospettiva che ci offre Simone Weil, a fondamento della giustizia non troviamo più il diritto bensì «un obbligo incondizionato, inerente all’appartenenza al genere umano, che vincola ciascun uomo non solo di fronte agli altri ma di fronte a sé stesso. Questo obbligo incondizionato è il principio di dignità umana» (9).
Nel progetto volto all’istituzione di una nuova Francia da poter ricostruire in seguito alla Seconda guerra mondiale, la filosofa pensa a una comunità le cui azioni siano guidate dall’obbligo verso l’altro, ispirate dalla giustizia e protese verso il bene.
Quando «si è preso atto della realtà concreta, viva, ma anche precaria e bisognosa, degli altri […], occorre assumersene la responsabilità etica riconoscendo nei loro bisogni il nostro obbligo e anche, quando necessario, prendendo la parola per loro, dando loro voce» (10).
(1) S. Weil, La persona e il sacro, Adelphi, Milano, 2012, pp. 32-33.
(2) Cfr. R. Fulco, Diritto e diritti umani in S. Weil, 12 agosto 2010, «Dialegesthai», 1999-2020, ISSN 1128- 5478, disponibile al link: https://mondodomani.org/dialegesthai/articoli/rita-fulco-02.
(3) In tale contesto, usiamo il termine ‘uomo’ in senso universale, in quanto è il termine che ricorre negli scritti weiliani. La filosofa con ‘uomo’ intende umanità.
(4) S. Weil, La prima radice, SE, Milano, 2013, p. 13.
(5) S. Weil, La persona e il sacro, Adelphi, Milano, 2021, pp. 47-49.
(6) Ibidem.
(7) Cfr. M. Mincinesi, L’io, l’altro e la collettività: declinazioni della persona in Simone Weil, in Insieme con Simone Weil, «Azioni Parallele», 6 settembre 2017, disponibile al link: https://www.azioniparallele.it/31-simone-weil/200-declinazioni-persona-simone-weil.html.
(8) F.R., Recchia Luciani, Simone Weil, Albert Camus e la terapia del dovere, «Post-filosofie», [S.l.], no. 7, pp. 102-112, 2013, ISSN 1827-5133.
(9) A. Supiot, Il pensiero giuridico di Simone Weil, estratto da Rivista giuridica del lavoro e della previdenza sociale, Ediesse, Roma, 2011, pp. 603-626.(10) F.R., Recchia Luciani, Simone Weil, Albert Camus e la terapia del dovere, «Post-filosofie», [S.l.], no. 7, pp. 102-112, 2013, ISSN 1827-5133.
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