Poetici, onirici. I film scritti e diretti da Paolo Sorrentino hanno il potere di sollevarci con leggiadria dalla poltrona del cinema sulla quale siamo seduti e di farci perdere con gentilezza in fotogrammi che sono opere d’arte.
Tanto si è già detto sulla sua produzione cinematografica, e in particolar modo del suo È stata la mano di Dio, uscito a novembre nelle sale (e da metà dicembre anche su Netflix). È stato giustamente sottolineato il carattere di spartiacque di questa pellicola, una sorta di punto di non ritorno, per la presenza di una cifra autobiografica che è la protagonista indiscussa.
Possiamo idealmente dividere il film in due parti, il cui punto di cesura è indubbiamente rappresentato dalla tragedia che accade all’improvviso.
La prima parte è molto sorrentiniana nello stile, nei colori, nel modo in cui i personaggi sono tratteggiati: c’è il grottesco, l’umoristico, il sarcastico, c’è la gioia genuina, l’amore. Nella seconda parte, invece, cambiano i colori, i toni di voce, le espressioni del viso. Questa trasformazione, a volerla analizzare, ci dice tantissimo della riflessione filosofica che Sorrentino ci consegna.
Torniamo indietro per un momento, a La grande bellezza. C’è un dialogo ricchissimo che si svolge tra Jep Gambardella (Toni Servillo), il protagonista, e Stefania (Galatea Ranzi), una sua amica radical chic. A fronte delle numerose narrazioni autoreferenziali che Stefania fa di sé, della propria vita e del proprio lavoro, Jep prorompe in una sfuriata che demolisce uno a uno tutti i tasselli del suo discorso.
Stefania ha appena elencato i suoi successi: un matrimonio felice, enormi sacrifici per l’educazione dei figli, una vocazione civile ben pronunciata, ben undici romanzi pubblicati. Jep, composto e sicuro del fatto suo, le fa intendere che ciò che lei si racconta a proposito della propria vita è ben lungi dall’aderire alla realtà. È soltanto un modo consolatorio per riuscire a condurre un’esistenza socialmente accettabile. Uno su tutti, non esiste nessun matrimonio felice, tutti nella cerchia di amici sanno benissimo che suo marito ha da tempo una relazione con un altro uomo. Conclude così:
«Queste sono le tue menzogne e le tue fragilità. Stefà, madre e donna, hai cinquantatré anni e una vita devastata, come tutti noi. Allora, invece di farci la morale, di guardarci con antipatia, dovresti guardarci con affetto. Siamo tutti sull’orlo della disperazione, non abbiamo altro rimedio che guardarci in faccia, farci compagnia, pigliarci un poco in giro…O no?» (1)
A essere chiamato in causa, insomma, è un tema principe della filosofia: la necessità che l’essere umano avverte di porre un velo tra sé e la coscienza della propria finitezza, talvolta della propria inadeguatezza, infelicità, insoddisfazione.
Consapevolmente o meno, camuffiamo le nostre fragilità sotto strati di bugie e omissioni, che ci servono non solo per presentare un’immagine coerente di noi stessi agli altri, ma anche e soprattutto per renderci accettabili ai nostri occhi, per poter dunque affrontare le giornate senza troppe domande scomode.
Imparando a esercitare la consapevolezza, però, ci rendiamo conto di essere sdoppiati: da un lato, portiamo avanti, arricchendola e ampliandola, l’auto-narrazione della nostra esistenza, che propiniamo senza lesinare, e dall’altro siamo intimamente e profondamente coscienti delle ferite che non si sono rimarginate, del dolore che ognuno porta con sé, delle piccole o grandi manchevolezze che ci fanno arrossire di vergogna, di ciò che poteva essere e non è stato.
E allora, tornando al tema dal quale siamo partiti, sembra che Sorrentino abbia voluto davvero chiudere il cerchio con il suo ultimo film, almeno a questo riguardo. Perché fa dire dal regista Capuano (Ciro Capano) al giovane se stesso (Filippo Scotti):
«Insomma, Schisa, hai qualcosa da dire, o sei come tutti gli altri? Ce l’hai una cosa da raccontare? Forza, coraggio! Ce l’hai o no qualcosa da raccontare? Ce l’hai il coraggio per dirla? E dimmela!»
«Quando sono morti, non me li hanno fatti vedere!»
«Non ti disunire, Fabio.»
«Ma che significa?»
«Non ti disunire, Schisa. Non ti disunire mai. Non te lo puoi permettere.»
«Ma cosa significa, perché?»
«Perché non ti hanno lasciato solo. Ti hanno abbandonato.» (2)
È come se il regista dicesse a se stesso, e a noi: hai il diritto di soffrire, hai il diritto di essere arrabbiato, non pensare mai il contrario.
Non scindere la tua vita tra ciò che è meritevole di essere raccontato, esposto, e ciò che invece non lo è, e va dissimulato. Abbi il coraggio di fare i conti con il tuo dolore, prima, e di comunicarlo, poi. La dimensione onirica, a tratti grottesca, alla quale Sorrentino ci ha abituati si svela, così, come il contraltare immaginario di una vita sofferente, il filtro che il regista ha saputo individuare per condividere qualcosa di sé.
(1) La grande bellezza, dir. Paolo Sorrentino (2013, Medusa Film).
(2) È stata la mano di Dio, dir. Paolo Sorrentino (2021, Netflix – Lucky Red).
La foto di copertina è un’immagine ufficiale di È stata la mano di Dio. Il copyright della suddetta è pertanto di proprietà del distributore del film, il produttore o l’artista. L’immagine è stata utilizzata per identificare il contesto di commento del lavoro e non esula da tale scopo – nessun provento economico è stato realizzato dall’utilizzo di questa immagine. / This is an official image for It was the hand of God. The image copyright is believed to belong to the distributor of the film, the publisher of the film or the graphic artist. The image is used for identification in the context of critical commentary of the work, product or service. It makes a significant contribution to the user’s understanding of the article, which could not practically be conveyed by words alone.
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