Si è aperto un nuovo anno e ancora una volta ciò che si raccoglie è il senso di spaesamento che scandisce i nostri tempi.
Pandemia, cambiamenti climatici e sfide globali ci portano costantemente in dialogo con la nostra limitatezza, proiettandoci in un’esistenza incerta e sempre più vulnerabile.
Le tragicità che stiamo vivendo lasciano apparire sempre più chiaro come tutta la nostra esistenza sulla Terra sia ormai da tempo contraddistinta dalla precarietà e dal limite.
E se da un lato il sentimento di angoscia che si dipana latente nelle nostre vite ci spinge verso forme di rifiuto della nostra fragilità, da un altro appare chiaro come il diniego sia incarnato da una radicale messa in dubbio e dal rifiuto del vero.
In altri termini, se lo scorso secolo si è dispiegato sotto il segno della catastrofe, di certo il nostro porta il marchio del dubbio e dell’incertezza.
Siamo immersi nell’incertezza, e questo si può ben percepire in qualsiasi narrazione che ci circonda, ma ciò che più preoccupa è l’aver abbracciato a pieno quel sentimento di vivere in una post-verità che fa di tutto un niente provvisorio e insicuro, in bilico tra menzogna e contraffazione.
Tutto è percepito come immerso nella tinozza dell’incerto e del nascosto, delle finte apparenze e del travisato. La realtà stessa, sotto questo sguardo, appare confezionata come un grande rompicapo, un gioco di specchi che distorce tutto. E, convinti di queste grandi ombre calate che mistificano il mondo, ci si è sentiti in dovere di assumere il compito di chiarire e discernere il vero dal falso.
Abbiamo indossato lo sguardo del dubbio e non lo riusciamo più a sradicare.
E pure la filosofia, che da sempre conserva un rapporto con la messa in questione, si trova invischiata in questa pece di paura e di negazione che ha fatto del dubbio l’unico tassello dei nostri tempi.
Se è normale trovarsi spaventati dinanzi a ciò che ci è nuovo e sconosciuto, usare il dubbio come arma per poter rifiutare ciò che accade è pericoloso e conserva un alone di tragicità.
Non è raro, infatti, trovarsi dinanzi a forme di negazionismo, a teorie del complotto e a scenari di incredulità che celano angoscia e disorientamento verso il reale. Lo stesso panorama scientifico ci appare consegnato in questa dinamica dualista di vero e falso, facendo della radicalizzazione e della polarizzazione lo specchio di questa tendenza a screditare il vero, a disprezzare l’opposto come menzogna senza voglia di comprendere davvero.
Ma se è indispensabile domandarsi di tutto, porre in questione, dubitare, fino a dove è lecito farlo?
L’esercizio del dubbio, che è la precondizione della conoscenza, ha smesso il suo compito di strumento della ragione per diventarne il fine. Il vero, che consiste con il fine e la fine del dubitare, perde di spessore, e il suo legame con il reale diventa il termine medio del puro domandarsi.
Questa inversione (del fine a mezzo e del mezzo a fine) prende forma mediante una postura scettica che, incapace di generare senso, semina il mondo in uno spazio vuoto e autoreferenziale in cui nemmeno il dubitare rimane tale, travisato come compito di un Io che si compie solo nello smascheramento del reale.
Il dubbio è il fine dell’individuo contemporaneo che, incapace di pensare se stesso e il mondo, ha fatto dell’angoscia e del sospetto il suo nuovo compito esistenziale.
Ma, dal momento che rifiutare ogni certezza corrisponde al compimento di ogni individuo, l’esistenza umana è gettata nel non-senso e nell’impossibilità.
Come afferma, infatti, il filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein: «Chi volesse dubitare di tutto, non arriverebbe neanche a dubitare. Lo stesso gioco del dubitare presuppone già la certezza» (1).
L’esercizio del dubbio, in altre parole, ha senso all’interno di un sistema di certezze. Quando, cioè, io dubito di qualcosa, è perché ammetto tutta una serie di verità incontrovertibili: che io sia un essere pensante, ad esempio, o che io parli in italiano, che abiti in questa casa e che io sia la stessa persona che ero cinque minuti fa.
«Potremmo mettere in dubbio ciascuno di questi singoli fatti, ma metterli in dubbio tutti non possiamo» (2).
Questo perché, lo stesso esercizio del dubitare, presuppone un lembo di terra sul quale poggiamo, ed è da questo punto di vista, da questo perno fermo, che osserviamo il mondo e lo solleviamo per poterlo analizzare.
«Vale a dire: le questioni, che poniamo, e il nostro dubbio, riposano su questo: che certe proposizioni sono esenti da dubbio, come se fossero i perni sui quali si muovono quelle altre» (3).
Anche dubitando del mondo, rimaniamo ancorati a esso, a una certezza che è la base del nostro dubitare.
Rimane, allora, solo questo da chiarire: perché voler dubitare di tutto, anche se di tutto è impossibile dubitare?
C’è, insomma, chi ha scelto di abitare il dubbio e di negare la certezza, abbracciando questa nuova condizione umana che rende gli individui navigatori del caos e delle false apparenze. Siamo diventati astronauti che fluttuano nel vuoto, ripudiando il mondo e negando il vero, e forse un po’ ci sta bene così.
- L. Wittgenstein, Della Certezza. Analisi filosofica del senso comune, Giulio Einaudi Editore, Torino, 2014, § 115.
- Ivi, § 232.
- Ivi, § 341.
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