L’oggettività è un intento tanto agognato quanto difficile da raggiungere, soprattutto se non si prende in considerazione che a provarci sono persone – quindi, per loro stessa natura, soggetti, e in quanto tali passibili di soggettività.
Stando al metodo epistemologico empirista tradizionale, la ricerca suppone risultati storicamente e culturalmente “privi di corpo” (disembodied) nel loro tentativo di produrre nozioni oggettive universalmente valide. Inoltre, parte dal presupposto che chi ricerca sia in grado di rendersi trasparente e non condizionare in alcun modo le tesi prodotte.
«“La scienza ci dice…” ci sentiamo dire. La scienza di chi? Ci potremmo chiedere.» (1)
È Sandra Harding, esponente di spicco della feminist standpoint theory, a porsi questa domanda e a produrre una possibile risposta.
Innanzitutto, la standpoint theory parte dal presupposto che la conoscenza sia collocata socialmente e impregnata di storia piuttosto che astratta da essa e dal contesto in cui si sviluppa. In altri termini, non è possibile produrre conoscenza oggettiva prescindendo dal domandarsi anche chi la produca: chi siamo come conoscitori ha ripercussioni su ciò che conosciamo. È evidente che il sapere scientifico venga prodotto da persone socialmente definite e appartenenti a un dominant group.
Se non è una colpa far parte di una classe privilegiata, è però responsabilità da assumersi quella di interrogarsi circa i bias che possono influire sulla neutralità dei risultati. Essi, infatti, esistono nonostante si cerchi di eliminare ogni traccia di impronta personale dall’indagine: il “God trick” coniato da Donna Haraway – il tentativo di osservare il mondo con completa imparzialità, come se si fosse una divinità che guarda dall’alto, un narratore onnisciente e invisibile – non esiste.
Una modalità per massimizzare il grado di oggettività e viziare il meno possibile gli esiti della ricerca, secondo la standpoint theory, è spostare il punto di partenza della produzione del sapere dal punto di vista della comunità scientifica tradizionale a quello delle categorie sociali marginalizzate: esse costituiscono terreno fertile per il sorgere di domande e problematiche che dalla prospettiva di un gruppo dominante non emergerebbero.
L’oggettività, infatti, è per Harding più ottenibile se cercata da persone consapevoli della propria condizione sociale (2) e questa condizione è presente proprio nei gruppi più o meno volontariamente discriminati, che sono anche in grado di individuare i bias del gruppo dominante stesso (perché ne subiscono le conseguenze).
Perciò, la comunità scientifica ha bisogno di incamerare il punto di vista dei gruppi dominati/emarginati perché il metodo di ricerca benefìci delle loro differenti prospettive: non è uno step sufficiente a ottenere imparzialità, ma è per Harding necessario.
Perché feminist standpoint theory? Perché, casualità vuole (?), è stato un marginalized group – in questo caso costituito al femminile – a rendersi consapevole delle possibili distorsioni prodotte da una comunità scientifica che ha interiorizzato comportamenti mentali androcentrici.
(1) Sandra Harding, Rethinking standpoint epistemology: what is “strong objectivity”?, The Centennial Review n.3, Michigan State University Press, 1992, p. 452. Trad. dell’autrice; testo originale: “Science says…” we are told. Whose science, we can ask?.
(2) Cfr. Andrew Freundlich, Feminist standpoint Epistemology and Objectivity, 2016.
Immagine di copertina: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Sandra_G_Harding.tif
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