Il ruolo pubblico della donna nella società greca era marginale: a differenza degli uomini, che godevano del diritto di cittadinanza, le donne non potevano partecipare alle assemblee o ai consigli e ogni forma di esercizio del potere era loro preclusa. Erano di fatto escluse dalla vita pubblica e politica in quanto destinate ad occuparsi dei lavori domestici e ad essere il “contenitore” del seme maschile (1):
«la differenza biologica tra uomo e donna avrebbe reso quest’ultima naturalmente idonea alle incombenze domestiche, all’opposto dell’uomo, destinato alle attività esterne» (2).
La donna doveva sottostare al dominio del marito e dello Stato. In quanto, secondo il filosofo Aristotele, dotata di minore ragione e soggetta agli impulsi vitali e alle passioni, non avrebbe avuto una volontà propria e pertanto poteva essere solo un danno per lo Stato.
Paradossalmente, mentre il ruolo pubblico delle donne nell’antica Grecia era piuttosto esiguo, nei testi letterari i personaggi femminili rivestono ruoli di enorme importanza.
La letteratura dell’età classica, quella che inizia con le tragedie di Eschilo, presenta figure femminili significative, dal carattere forte e coraggioso, in grado di compiere azioni eroiche e spaventose nello stesso tempo. Il teatro classico metteva in scena gli atteggiamenti delle donne e le loro azioni esplorandole in ogni tratto: le loro passioni e le loro emozioni diventavano quasi un riferimento per la sfera maschile. In altre parole, le protagoniste consentivano agli uomini di comprendere quelle dimensioni emotive usualmente per loro inesplorate.
Ad interpretare i ruoli femminili erano tuttavia gli uomini e non si è sicuri se le donne potessero realmente prendere parte agli spettacoli. Questo perché, secondo alcuni grecisti, la tragedia classica era emblema del diffuso disprezzo per le donne, di quella radicata misoginia che sanciva la subordinazione del femminile.
L’odio per le donne è particolarmente forte nel tragediografo greco Euripide: i suoi personaggi femminili descrivono l’immagine della donna paragonandola ad un vero flagello, «sventura inenarrabile per chi non riesce a sottrarsi al suo influsso malefico» (3).
Euripide però non nega la possibilità che la donna possa essere una creatura molto astuta e tale condizione è per lui assolutamente preoccupante: più una donna è scaltra, maggiore potere riesce ad esercitare e più danni è in grado di provocare:
«la cosa migliore è l’aver in casa una donna da nulla, ma almeno inutile nella sua stupidità. La donna saputa, la odio! Non me ne capiti in casa una, che pensi cose più grandi che a donna conviene» (4).
Inoltre, per Euripide era proprio incomprensibile la mentalità femminile, tanto che qualsiasi azione nella sua ottica non motivabile viene da lui considerata come atto di pura follia (5).
Ma come spiegare, allora, le parole di ribellione di Medea, protagonista di una delle tragedie più note di Euripide, nei confronti del destino riservato alle donne?
«Di tutte le creature che hanno anima e cervello, noi donne siamo le più infelici; per prima cosa dobbiamo, a peso d’oro, comprarci un marito, che diventa padrone del nostro corpo – e questo è il male peggiore. Ma c’è un rischio più grande: sarà buono o cattivo? Separarsi è un disonore per le donne, e rifiutare lo sposo è impossibile. Se poi vieni a trovarti fra nuove usanze e abitudini diverse da quelle di casa tua, dovresti essere un’indovina per sapere come comportarti con il tuo compagno. […] Dicono che viviamo in casa, lontano dai pericoli, mentre loro vanno in guerra; che follia! È cento volte meglio imbracciare lo scudo piuttosto che partorire una volta sola» (6).
Questo sfogo di Medea, definito come il primo manifesto femminista della letteratura greca, esprime una rivolta a nome di tutte le donne nei confronti delle ingiustizie legate alla condizione femminile.
Probabilmente Euripide, vivendo in un’Atene in cui la questione femminile era oggetto di discussione, nell’accogliere le parole infuocate di Medea si dimostra in un certo senso sensibile alla sorte riservata alle donne.
A questo punto appare evidente come la cultura greca sia una cultura al maschile che esprime un punto di vista misogino. Ma nonostante nella contemporaneità la donna abbia un ruolo pubblico e una maggiore rappresentanza a tutti i livelli, le dinamiche relazionali sociali sono ancora imbastite di una mentalità androcentrica.
Pertanto i mutamenti della condizione di vita femminile, la conquista della parità formale con gli uomini, non hanno ancora cancellato la plurimillenaria forma mentis discriminatoria, per cui comprenderne le ragioni di fondo può far sì che la trama delle disuguaglianze possa, nel tempo, sciogliere i propri nodi.
(1) E. Cantarella, Itaca. Eroi, donne potere tra vendetta e diritto, Feltrinelli, Milano, 2013, p. 67.
(2) https://www.letture.org/la-donna-greca-maria-paola-castiglioni
(3) E. Cantarella, L’ ambiguo malanno. La donna nell’antichità greca e romana, Feltrinelli, Milano, 2010, p. 104.
(4) Ivi, p. 105
(5) S. Domeneghini, Euripide: Misoginia o Ginofobia?, “Revista Internacional de Culturas y Literaturas”.
(7) Eurip., Med., 230-251.
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