Woman dei Wolfmother è appena terminata e io ho una strana sensazione. A dire il vero, ne ho due e sono contrastanti tra loro. Mi è successo anche qualche canzone prima: Spotify stava riproducendo gli Eagles of Death Metal e davanti agli occhi mi si è palesata la copertina dell’album Zipper down. Una ragazza tira giù la zip della giacca di pelle e mostra il seno e a coprire i suoi capezzoli ci sono le facce di chitarrista e cantante.
Quali sono quei pensieri contrastanti che mi prendono in momenti di questo tipo? Una sorta di conflitto interiore, un misto tra quell’esaltazione che solo il rock sa dare e una certa irritazione. «Io amo tutto questo» mi dico «la chitarra distorta, il ritmo incalzante, la rabbia, la voglia di spaccare tutto». Stupendo, insomma, ma nonostante ciò, qualcosa mi innervosisce.
Cosa? I testi e il mood di certe canzoni e band è offensivo. Ricorre, infatti, un’immagine odiosa, sia nei Wolfmother che negli EODM, quella dell’uomo – vero, macho – soggiogato da una donna sensualissima, una vera femme fatale e lui la vuole possedere a tutti costi. Deve assolutamente essere sua.
La mia irritazione, però, non è solo “colpa” di questi due artisti in particolare, è qualcosa che affligge il rock sin dalla sua nascita: il maschilismo.
Era il 1966 e i Rolling Stones cantavano: «Under my thumb it’s the squirmin’ dog who’s just had her day (…) It’s down to me, yes it is, The way she does just what she’s told»
È sotto il mio controllo la cagna che non sta nella pelle a fine giornata, dipende da me, proprio così, il modo in cui fa ciò che le viene detto di fare.
Come gli Stones, altri artisti tra anni Sessanta e Settanta parlano delle donne in modi sprezzanti e machisti: i testi da citare sarebbero infiniti.
Quello che li accomuna è spesso un’esaltazione del proprio potere e della propria potenza sessuale e uno sguardo al sesso opposto che ne considera solo il corpo e l’uso che se ne può fare.
Questa sessualizzazione delle donne da parte dei rocker è frutto della rivoluzione sessuale degli Anni Sessanta che fu, anche per noi stesse, un passaggio essenziale per il movimento femminista.
Per questi musicisti va benissimo perdere i freni inibitori, fantastico superare il puritanesimo: ma non andiamo troppo oltre. La libertà sessuale acquisita, insomma, viene comunque imbrigliata nei confini della società patriarcale e la donna – ora più disinibita – rimane proprietà del maschio.
Tantissimi artisti rock nascono nei tempi o con il mito della rivoluzione sessuale e con la voglia di sovvertire la società esistente: essi, però, sono quasi tutti uomini.
Quelle poche donne che raggiungono il successo, purtroppo, vengono spesso assimilate al sesso maschile, diventando macchiette, perdendo la propria femminilità. Sono viste come maschiacci e la loro figura, in modi diversi, viene oscurata da quella di un uomo, oppure perde la propria connotazione rock per diventare più pop.
Questo fatto, con il passare del tempo, cambia ben poco. Provate a pensare quante band rock conoscete e quante donne tra di esse? Non è necessaria la statistica per notare la penuria di musiciste. Se vogliamo essere precisi, la presenza delle donne nella Rock and Roll Hall of Fame nel 2019 è del 7,7 % e questo è un dato estremamente significativo. Qualche cantante donna, è vero, c’è, ma solitamente appartiene al mondo del pop. Quello del rock rimane appannaggio maschile.
C’è una soluzione a tutto questo? La situazione potrebbe apparire irrisolvibile, pare quasi che il rock sia costitutivamente legato al sesso maschile, come dimostrato negli ultimi anni da Wolfmother e EODM (come tanti altri) così come negli anni Sessanta e Settanta con Jimi Hendrix o gli Stones. Questo, però, non spiegherebbe perché tante donne continuano ad amarlo e, seppur in sordina, a suonarlo.
La motivazione, allora, va ritrovata nelle origini di questo fantastico genere. C’è in esso, infatti, un potenziale sovversivo immenso che, se affrancato dal patriarcato, potrebbe divenire un mezzo fondamentale per una vera liberazione sessuale e una reale parità dei sessi.
Ecco perché, anche noi donne – nonostante tutto – lo continuiamo ad ascoltare: vediamo comunque in esso una grande forza, che attende solo di essere riportata fuori.
Non dimentichiamoci che il rock, soprattutto quello degli Anni Sessanta, è intrinsecamente legato alla musica nera e da essa riprende lo spirito della protesta. Per questo anche noi donne lo adoriamo, anche se spesso ci tratta solo come corpi. In quelle chitarre distorte, nei suoni cupi del basso, nel ritmo veloce e perturbante della batteria, in quel rumore che è come un urlo lanciato contro la società ritroviamo il nostro urlo – di donne – lanciato contro la società.
Il rock è ribellione, è sbattere in faccia il disagio, il dolore – ma anche la gioia e l’amore travolgenti – a chi li nega o chi li minimizza, sublimando tutto ciò in qualcosa di bellissimo, esaltante, commovente.
Speriamo che un giorno, con l’aiuto di tutt*, il rock rompa anche le barriere del sesso, del genere e della razza e che diventi – per davvero – un unico urlo variegato contro il perbenismo, il sessismo e il capitalismo che ci vuole uniformare e reificare tutti.
(1) D. Harding e E. Nett, Women and Rock Music, Atlantis Vol. 10 No. 1 Fall/ Automne,1984.
(2) https://medium.com/music-culture-irl/sexism-in-rock-668632ddaaaa
(3) https://www.doppiozero.com/r-e-s-p-e-c-t-o-del-machismo-nel-rock
(5) Per altri articoli con temi simili, date un’occhiata anche a: https://www.filosofemme.it/2018/05/14/perche-ogni-ragazza-dovrebbe-essere-una-riot-grrrl/ e https://www.filosofemme.it/2022/09/26/la-filosofia-di-velvet-goldmine/
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