Nel 2006 il sociologo americano Aneesh ha coniato la parola algocracy, per indicare l’emersione del dominio e del potere degli algoritmi all’interno della struttura e dell’ordine sociale. Ogni momento della nostra esistenza sembra sempre di più collegato all’ecosistema digitale, che smonta la classica dicotomia tra il pubblico e il privato, tra ciò che fa parte della nostra intimità e ciò che ci determina davanti agli occhi degli altri. Ed è così che l’avvento del digitale può essere sottoposto a più di una lettura.
La prima corrisponde a una visione positivista, attraverso la quale consideriamo la nuova società come ricca di promesse, di aperture, di crescita, soprattutto di maggiore consapevolezza di sé, delle proprie scelte e azioni sia in ambito sociale sia in ambito politico. Niente di più vero. Ma non finisce qui.
L’analisi diventa più profonda ed è lì che la visione prende una piega (o tante pieghe) diversa. Proviamo a leggere la rivoluzione digitale come una controrivoluzione.
In associazione a premesse rosee e cariche di aspetti positivi, contestualmente si è sviluppato uno strano indebolimento delle libertà individuali, che si può cogliere dalle emergenti dinamiche di potere. L’ambiguità del nuovo assetto sociale nella sua apparenza così liberale e democratico nasconde un assoggettamento trasparente. Lo definisco in questo modo giacché a prima vista non si nota, ci passiamo attraverso, senza nemmeno notarlo.
«Proprio là dove non viene tematizzato, il potere è indiscusso; più grande è il potere, più silenziosamente agisce. Esso accade, senza bisogno di segnalarsi in modo clamoroso.» (1)
Certo, non voglio dire che siamo schiavi di un regime totalitario con a capo un tiranno, ma ci siamo trasformati a mano a mano in dipendenti volontari. Lo (psico)potere non agisce in maniera violenta, bensì con benevolenza: la libertà non viene mai negata, ma usata e sfruttata. Proprio per questo motivo non esiste la figura conclamata di dittatore che gestisce il classico potere disciplinare.
La società algocratica, infatti, ci rende complici attivi della nostra stessa sottomissione.
Ne abbiamo bisogno perché riceviamo una quantità esponenziale e sempre più crescente di stimoli, provenienti dall’habitat digitale in cui siamo immersi, che si trasformano in desideri, in un continuum che è diventato tipico dell’assetto sociale. Tra innumerevoli scelte che possiamo compiere in maniera consapevole e razionale, alla fine preferiamo che le nostre azioni ci vengano “consigliate”: «Che cosa mi consiglia Netflix da guardare?».
A questo punto, mi viene in mente l’amara considerazione che fa Shoshana Zuboff sulla perdita di autonomia profonda dell’individuo: ognuno di noi rappresenta un capitale (umano) e la sua esperienza un surplus di esso. (2)
Il capitalismo digitale si insinua senza freni in tutte le menti, inevitabilmente.
E se viene instillata un’ideologia, che cosa rischiamo?
Per esempio, se un’ideologia diventa egemonica, senza che gli individui sociali la riconoscano come tale, interiorizzandola, la potrebbero applicare come unico modello possibile. Allora, il pericolo è l’ottenimento di una conformazione sociale e di un appiattimento degli individui, fino a raggiungere la loro pacifica obbedienza, a scapito della consapevolezza e personale e collettiva.
Questo pensiero mi fa tornare indietro nel tempo, quando il mio docente di Estetica dei nuovi media citò la storia dei pesci che si chiedevano cosa diavolo fosse l’acqua di David Foster Wallace. (3) Ancora oggi non sappiamo effettivamente cosa sia l’acqua in cui viviamo e in cui navighiamo.
La rete per noi rappresenta un archivio potenzialmente infinito di informazioni e di dati, ma i confini e i limiti del suo corpo sono ancora troppo poco conosciuti, come anche i modi inediti attraverso i quali genera nuove forme di interazione. Pur vivendoci, non sappiamo dove inizia e finisce l’asse di potere, da che parte si orienta e in che direzione ci conduce. Le mutazioni a cui siamo sottoposti e le possibili e variegate forme di “dominazione silente” possono rappresentare una grande sfida sociale, per ripensare ciò che siamo e vogliamo essere e in che genere di relazione viviamo con gli altri e con l’ambiente.
Il dubbio, allora, è lo strumento necessario per registrare e interpretare in chiave nuova il processo di accelerazione da cui emerge continuamente la complessità del progresso.
Dobbiamo scegliere, allora, se incarnare il personaggio dantesco di Ciacco, abbuffandoci di dati e di informazioni, senza assumere una prospettiva che rifletta la direzione verso cui stiamo procedendo al fine di diagnosticare quali sono i possibili effetti collaterali per noi e per il nostro futuro. Oppure possiamo potenziare la nostra intelligenza collettiva, per ripensare criticamente il rapporto tra la conoscenza, l’uomo, la realtà e la tecnica. Il pensare riflessivo e collettivo permette, infatti, agli individui di non cadere nella spirale dell’automatismo, ma di svegliarci dal torpore cognitivo.
Riacquisire una consapevolezza individuale e collettiva permette a ogni individuo di ritornare a gestire la propria esperienza di vita e di coltivare un’intelligenza comunitaria. Questa possibilità ci permetterebbe di risanare i circuiti politici e sociali, intervenendo anche attivamente sull’ecologia digitale.
(1) B.C. Han, Psicopolitica. Il neoliberalismo e le nuove tecniche di potere, Nottetempo, Roma, 2016, p. 19
(2) S. Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, Luiss University Press, Roma, 2019.
(3) D.F. Wallace, Questa è l’acqua, Einaudi, Torino, 2009.
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