La condizione giovanile nell’età del nichilismo

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La condizione giovanile nell'età del nichilismo

«I giovani stanno male, piuttosto male» (1): sono queste le parole con cui il filosofo Umberto Galimberti inizia il suo saggio dal titolo La condizione giovanile nell’età del nichilismo, in cui affronta il tema del disagio giovanile nella società attuale. Le ragioni di questo malessere non sono solo quelle psicologiche tipiche dell’età adolescenziale, ma sono accompagnate e aggravate da un’altra ragione, ben più importante e specifica, quella culturale: per loro infatti il futuro non è più una promessa e il presente diventa un assoluto da vivere con una intensità tale da seppellire l’angoscia che deriva dalla mancanza di senso che attraversa la società contemporanea.


Un ospite inquietante, il nichilismo (2), si aggira tra di loro, penetrando nei loro sentimenti e nei loro pensieri, annullando tutte le loro prospettive e i loro sogni.


Incapaci di descrivere il loro malessere esistenziale, inabissati nel loro analfabetismo emotivo, annaspano in un presente caratterizzato da una desolazione comunicativa, dove la famiglia e la scuola non riescono più a configurarsi come certezze in questo oceano di incertezze.

Non a caso, il filosofo argentino Miguel Benasayag chiama quest’epoca “l’epoca delle passioni tristi”, sostenendo che per i giovani di oggi il futuro non è una promessa bensì una minaccia (3).

Galimberti in questo libro focalizza l’attenzione su una tematica di cui troppo poco si parla alla tv o sui giornali, ovvero sul fatto che in Italia ogni anno si suicidano circa 400 studenti. Perché? Perché manca lo scopo e manca la risposta al “perché”, «la demotivazione è il risultato più evidente e più diffuso: non vedendo il futuro manca la molla per muoversi» (4). Ce ne possiamo accorgere anche dal linguaggio che permea la società attuale, in cui dominano espressioni di passività come “speriamo”, “auguriamoci”, “auspichiamo”, che denotano un atteggiamento di attesa, di immobilità, di inerzia.

È anche vero, afferma Galimberti, che rimane molto difficile l’autorealizzazione nell’età attuale che definisce “età della tecnica”, dove la tecnica stessa è diventata il nostro mondo, un mondo in cui dominano gli algoritmi, in cui veniamo considerati solo come profili costruiti sulla base della raccolta delle informazioni intorno a noi. La pandemia ha solamente aumentato un distanziamento sociale già in atto. Non ci si incontra più, non c’è più dialogo e quando non c’è dialogo, i problemi vengono amplificati.


I luoghi in cui avviene la formazione e l’educazione sono la famiglia e la scuola, ma entrambe le istituzioni nella società attuale presentano delle lacune formative.


Per quanto riguarda la famiglia, di solito a lavorare sono entrambi i genitori e questo comporta una sorta di disattenzione e di mancanza di tempo verso i bambini, che pensano di non fare nulla di interessante per guadagnarsi dei ritagli di tempo da parte dei loro genitori, considerazione che determina poi l’inizio dell’indebolimento della loro identità. Come sottolinea Galimberti «l’identità non è che ce l’abbiamo perché siamo nati, l’identità nasce dal riconoscimento sociale, e quando si è bambini il riconoscimento sociale avviene nell’ambito famigliare» (5).

Per quanto riguarda la scuola, Galimberti è giunto alla conclusione che «la scuola italiana istruisce, ma non educa» (6): l’istruzione è un semplice passaggio di contenuti mentali da chi li possiede a chi li deve acquisire, mentre educare è una cosa completamente diversa, ben strutturata ed equivale innanzitutto a individuare da che tipo di intelligenza i vari studenti partono. Quella che la scuola tende a sviluppare è di tipo logico-matematico, non tenendo in considerazione il fatto che gli studenti hanno intelligenze diverse tra loro, c’è chi ha quella logico-matematica, artistica, spaziale, psicologica, ecc… 


Per Galimberti c’è inoltre una tendenza impressionante a patologizzare tutti gli studenti, a tutelarli e a infantilizzarli, facendo loro credere che non ce la possono fare da soli.


Sarebbe inoltre necessario che i professori facessero dei test della personalità, che fossero in grado di comunicare, affascinare e che facessero dei corsi teatrali perché insegnare vuol dire anche saper recitare, ma purtroppo la nostra società non investe più nella qualità della scuola.

Galimberti conclude il libro auspicando un avvicinamento dei giovani alla politica, perché se non si interesseranno di politica, di convivenza, di formazione della società, andranno incontro al baratro, perché al loro posto subentreranno le grandi organizzazioni a stabilire come devono comportarsi, come devono stare al mondo e come relazionarsi. 

Lui può solamente far vedere loro «com’è la realtà di oggi, perché se vogliono cambiarla, devono inevitabilmente prendere atto della configurazione che essa ha» (7).


Umberto Galimberti, La condizione giovanile nell’età del nichilismo, Orthotes Editrice, Napoli – Salerno, 2022.

Grazie a Orthotes Editrice!







(1) Umberto Galimberti, La condizione giovanile nell’età del nichilismo, Orthotes Editrice, Napoli – Salerno 2022, p.5.

(2) Nel suo saggio Umberto Galimberti prende in prestito la definizione di nichilismo data da Nietzsche, ovvero una situazione in cui i valori supremi si svalutano, in cui manca uno scopo, manca la risposta al: perché?

(3) Miguel Benasayag – Gérard Schimt, L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano 2013.

(4) Umberto Galimberti, op. cit., p.8.

(5) Ivi, p.19.

(6) Ivi, p.39.

(7) Ivi, p.63.