«Avrà imparato di più chi ha fatto il giro delle otto montagne, o chi è arrivato in cima al monte Sumeru?» (1)
Si chiude sostanzialmente con questa domanda il film Le otto montagne, regia di Van Groeningen e Vandermeersch, tratto dall’omonimo libro di Paolo Cognetti.
Il dilemma, che si pone a un livello molto profondo e che – a ben vedere – tocca un po’ chiunque, riguarda due modi diversi di vivere e interpretare l’esistenza. Il primo assegna un indubitabile primato al movimento, all’esplorazione di nuove terre e nuovi mondi, al non restar fermi, per scoprire se stessi e per imparare qualcosa sugli altri. Il secondo, invece, ha a che vedere con il senso di appartenenza a un luogo ben preciso, alle radici, alla casa intesa non come posto in cui tornare di tanto in tanto, ma anzi come punto di partenza di sogni e ambizioni.
I due co-protagonisti, interpretati rispettivamente da Luca Marinelli e Alessandro Borghi, incarnano precisamente queste due modalità del vivere, l’uno in giro per il mondo con la sensazione, a un certo punto, di essersi fatto scivolare via la possibilità di riconciliarsi con le proprie radici, e l’altro ostinatamente fedele alle sue montagne e restio a ogni tipo di spostamento.
Sin dall’antichità, ci è stato insegnato che tutto è in continuo divenire, che nulla resta immutato, e che anzi proprio la cifra del nostro essere umani sta nel cambiamento, nell’impossibilità di tenere le cose fisse in una forma che inevitabilmente perdono.
Lo diceva già Eraclito, panta rei, tutto scorre. E gran parte della storia della filosofia antica e moderna si fonda proprio sul tentativo di conciliare questa nostra estrema mutevolezza con i desideri più profondi che albergano in noi, che aspiriamo all’assoluto pur non potendoci arrivare. Capro espiatorio di questa costitutiva impossibilità è stato da sempre ritenuto il nostro corpo, gabbia terrena e materiale che impedirebbe alla nostra parte immateriale di spiccare il volo e librarsi in aria.
In realtà, impariamo dalla filosofia contemporanea due grandi lezioni.
La prima è che il nostro corpo è ciò che, a tutti gli effetti, ci consente di occupare uno spazio nel mondo, configurandosi quindi come la condizione di possibilità dei nostri movimenti, tanto fisici quanto mentali. Coltiviamo il pensiero e l’immaginazione anche perché siamo dotati di un corpo che ci appartiene e che ci salda all’ambiente nel quale ci muoviamo.
La seconda è che, lungi dall’essere la nemesi della vita che scorre, la possibilità di fermarsi è un’esigenza che sempre di più ci contraddistingue, e alla quale dobbiamo prestare ascolto. Ritagliarsi del tempo per riflettere, non farsi contagiare a tutti i costi dalla velocità spasmodica da cui tutto intorno a noi è animato, prendersela con calma ogni tanto, addirittura non rifuggire dalla noia: ecco alcuni ingredienti che potrebbero fornirci nuovi stimoli.
Per restare in tema, molto interessante è la riflessione di Paolo Sorrentino:
«Io faccio ancora parte di una generazione per cui i genitori erano sufficientemente disinteressati a noi da lasciarci annoiare. Purtroppo, questa bella caratteristica sta un po’ svanendo. […] Annoiandosi del mondo si ha la possibilità di creare un proprio mondo, e creare un proprio mondo è forse la massima priorità per scrivere un racconto, un film, una canzone.» (2)
(1) Le otto montagne, reg. Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch, 2022.
(2) P. Sorrentino, Come funziono, TEDxReggioEmilia, 2011.
La foto di copertina è un’immagine ufficiale di Le otto montagne. Il copyright della suddetta è pertanto di proprietà del distributore del film, il produttore o l’artista. L’immagine è stata utilizzata per identificare il contesto di commento del lavoro e non esula da tale scopo – nessun provento economico è stato realizzato dall’utilizzo di questa immagine. / This is an official image for Le otto montagne. The image copyright is believed to belong to the distributor of the film, the publisher of the film or the graphic artist. The image is used for identification in the context of critical commentary of the work, product or service. It makes a significant contribution to the user’s understanding of the article, which could not practically be conveyed by words alone.
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