Di lavoro avrebbe voluto essere un’ereditiera filantropa e invece le è toccato essere un’economista esperta in studi di genere.
Con queste parole si presenta Claudia Fauzia, fondatrice dell’associazione “Mala Fimmina” nata nel 2021 con volontà di portare all’interno del dibattito femminista la questione meridionale, di dare voce alla donne del Sud e di creare uno spazio per il meridionalismo queer.
Ad oggi l’associazione, costantemente in crescita, si fa portatrice delle istanze del Sud tramite l’organizzazione di eventi formativi e informativi cercando di promuovere l’uguaglianza di genere ma soprattutto di fare luce sul divario socio-economico tra il settentrione e il meridione in ottica femminista e decoloniale.
Noi l’abbiamo intervistata chiedendole di partire dalle basi e darci “un manuale d’istruzione” per comprendere come la questione meridionale si interseca a quella femminista.
Partiamo dalle basi. Tu porti avanti la battaglia per il riconoscimento della questione meridionale all’interno dei movimenti femministi. Puoi spiegarci innanzitutto cosa si intende per questione meridionale e per anti-meridionalismo?
Storicamente con “questione meridionale” si indica il divario socio economico che esiste tra il Sud e il resto del paese. Definire il meridione come “questione” è problematico ed è una espressione che è stata ampiamente criticata in quanto porta a pensare al Sud come una realtà arretrata rispetto a un modello universale e generale, ovvero quello settentrionale, che incarna l’immagine di sviluppo e di progresso. Un’immagine, quest’ultima, che però è stata storicamente elaborata dal Nord per il Nord (un Nord, lo ricordiamo, bianco, piemontese e borghese). Dall’unità di Italia in poi, e forse anche prima, il meridione è stato utilizzato come riserva sia di manodopera sia, da un punto di vista intellettuale, di menti, di cervelli che sono stati costretti a emigrare, anche tramite una serie di politiche che si sono susseguite, al fine di soddisfare lo sviluppo capitalistico del Nord. A questa prospettiva prettamente economica si aggiunge una discriminazione che è più di tipo cultuale. Le persone del Sud, infatti, sono considerate delle cittadine e dei cittadini di serie B e vengono costantemente associati e associate a pregiudizi ben consolidati come, per fare solo alcuni esempi, l’affiliazione a contesti mafiosi, la nullafacenza connaturata, l’atteggiamento furbesco e la tendenza a delinquere.
Dopo un periodo all’estero, hai deciso di tornare in Sicilia e portare nella tua terra ciò che avevi imparato negli anni trascorsi fuori. C’è stato un evento particolare che ti ha fatto percepire, nel periodo passato lontano da casa, che la concezione del meridione è una questione femminista e che va tratta con urgenza?
Quando vivevo all’estero, in Spagna e Sud America, non ho avuto la percezione della “questione”, tenendo presente quanto detto prima sul termine meridionale, in quanto è un divario primariamente interno al nostro paese. Successivamente, quando sono andata a vivere a Bologna ho percepito per la prima volta lì la differenza intestina e profonda tra Sud e Nord. Iniziando gli studi a Bologna ho preso coscienza del desiderio di voler tornare a vivere in Sicilia perché ho sperimentato il divario per esempio tramite un diverso trattamento nelle e dalle istituzioni, dalle colleghe e colleghi che facevano fatica a riconoscere il loro atteggiamento discriminatorio. La pandemia è stato l’evento scatenante e non sapendo bene come comportarmi ho deciso di iniziare un percorso di autoconsapevolezza, utilizzando i social (perché non si poteva fare altrimenti!) per comunicare ed entrare in contatto con altre persone che come me stavano compiendo il medesimo lavoro di presa di coscienza. Questa esperienza mi ha fatto comprendere che era possibile parlare del problema della marginalità che sentivo mio solo in connessione con altre realtà.
Nella tua presentazione scrivi che una volta hai detto che il femminismo deve farsi carico della “questione” meridionale e qualcuno è svenuto. Ecco, puoi chiarire come si unisce la lotta femminista con quella meridionalista e quali le differenze con il femminismo “mainstream”?
La riflessione nasce da un senso di incompletezza. Il femminismo fornisce la spinta per lottare contro alcune per alcune forme di discriminazione: quella relativa all’abilismo, quella sessuale, patriarcale, ma non dà mai contezza della lotta meridionalista. Ecco, personalmente non sarei riuscita a dedicarmi alla lotta femminista se non si fosse intrecciata a quella meridionalista. A tal proposito, io ho lavorato in un centro antiviolenza in un quartiere difficile di Palermo e lì mi sono resa conto che spingere le donne a rivendicare i propri diritti e ad ampliare un ventaglio di attività in una realtà complessa non considerando che, per esempio, il governo non finanzia gli asili nido al Sud, non permette di dare realmente contezza di ciò che avviene sul territorio. Ma se tutti emigrano come si può far emergere i problemi legati alla realtà del Sud e creare una riflessione politica? L’unica soluzione per me è quella di politicizzare la questione rendendo politico ciò che per noi è personale, in quanto incide fortemente sulla nostra personalità.
Quali sono le possibili azioni da compiere, sia da parte delle femministe che vivono al Sud sia da parte di coloro che sono andate via, per portare avanti questa duplice lotta per l’identità: di donne da un lato e di meridionali dall’altro?
Secondo me in primo luogo è necessario rifuggire la logica del martire, ovvero l’idea che bisogna dare la vita per la nostra terra e per la causa. Da ciò segue l’idea che vale la pena lottare quando ci sono le energie (e la volontà) da parte dell’interlocutore di comprendere i propri limiti e la propria discriminazione e solo così è possibile attuare un cambiamento collettivo. Dunque, se noto che vi è la possibilità perché un mutamento attecchisca provo ad agire e a cambiare.
Un aspetto che può aiutare e spronare all’azione è la consapevolezza di essere in una rete con delle persone che stanno combattendo la stessa battaglia, che stanno lottando contro gli stessi stereotipi. Inoltre, informarsi e spiazzare le persone con i dati permette di dimostrare che i loro stereotipi sono infondati e fa notare come questi atteggiamenti siano falsi, oltre che sciocchi. Non va però dimenticato che bisogna lavorare anche su di sé: c’è, infatti, una sorta di autolesionismo, una tendenza delle persone meridionali, soprattutto intellettuali o culturalmente attive, a mimetizzarsi, confondersi all’interno di altre categorie più, per così dire, accettate. Per questo motivo la cultura mainstream tende sempre a far emergere un meridione solo popolare e non mette in risalto la complessità e la totalità del vero meridionale. Infatti i media, seguendo l’onda dello share, si pongono come obiettivo solo il godimento che la persona del Nord cerca nella TV e nei film e di conseguenza, per rispondere a questa esigenza, tendono a mostrare solo l’aspetto esotico e folkloristico del Sud incentrando le narrazioni su alcuni temi come possono essere quelli legati alla mafia e/o alla delinquenza. Ciò può essere fronteggiato solo con una contro-narrazione che va costruita ogni giorno e che permetta di lavorare sulla nostra identità e riscattarla da quel atteggiamento dominante che prova a schiacciarla e denigrarla.
Grazie Claudia Fauzia e grazie Mala Fimmina!
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