Nel 2003 Naoki Urasawa ci regala Pluto, nel 2023 Toshio Kawaguchi lo trasforma in una miniserie per la piattaforma Netflix.
Il tema distopico di Pluto è immediatamente visibile e anche molto classico nella letteratura precedente: la vita umana insieme ai robot (1).
La sua specialità risiede nel racconto dei robot come agenti sociali che provano emozioni che loro stessi non sanno processare, in un mondo in cui il confine tra umano e artificiale dà l’impressione quasi di svanire. Sembra, in effetti, che all’inizio della storia i robot descritti da Urasawa siano agenti sociali che simulano i processi emozionali, per produrre effetti empatici negli umani.
Se si procede nella lettura del manga e/o nella visione dell’anime giapponese, ci si può rendere conto che, invece, il loro essere così sofisticati abbia portato i robot a provare internamente delle emozioni, il cui fine fisiologico è simile a quello degli uomini e degli animali.
Questa narrazione ci porta a riflettere sui passi compiuti dalle ricerche in seno alla robotica, che si sono realmente concentrate su due tipi di modellizzazione delle emozioni, quella definita “esterna” (sociale) e quella “interna” (individuale).
Questi due punti di vista della robotica inevitabilmente hanno portato alla ripresentazione del classico dualismo cartesiano, duro a morire.
Il primo approccio fa riferimento a robot antropomorfi assistivi, quindi che siano di aiuto in contesti terapeutici, medici, educativi. Una delle fonti più importanti che ha ispirato tale proposta è sicuramente la teoria dell’Uncanny Valley di Mori:
«Secondo lo studio di Masahiro Mori, la sensazione di familiarità e di piacevolezza generata in un campione di persone da robot e automi antropomorfi aumenta al crescere della loro somiglianza con la figura umana, per poi calare all’improvviso all’apice del realismo rappresentativo, destando sensazioni spiacevoli come repulsione e inquietudine che richiamano appunto il perturbamento di carattere freudiano.» (2)
Gli agenti robotici, dunque, non possiedono degli stati mentali profondi, hanno delle competenze sociali che si limitano alla simulazione – o come direbbero alcuni studiosi, alla finzione – di risposte emotive nei confronti degli uomini con cui interagiscono, come se provassero emozioni ed empatia.
Proprio l’approccio esterno della robotica combacia, almeno inizialmente, con la descrizione dei robot di Pluto che hanno sembianze umane – fatta eccezione per i vecchi modelli in circolazione –, quindi si atteggiano come gli uomini e hanno acquisito tutte le abitudini umane, tranne per il particolare che loro stessi devono seguire delle regole – chiaro riferimento alle leggi della robotica di Asimov.
La robotica “interna”, nata a partire dagli anni Novanta, invece, si concentra sulle teorie dell’embodied cognitive science che propone e ripone il corpo al centro della ricerca cognitiva, riaccendendo l’interesse per le forme di interazione tra i soggetti e il loro ambiente che, diversamente dal quadro proposto dal computazionalismo classico, erano considerate semplici manifestazioni della cognizione (il corpo del robot è privo di valore cognitivo).
«L’ipotesi guida della ricerca è che tali agenti artificiali dimostreranno un’intelligenza sociale simile alla nostra nella misura in cui la loro “competenza” emozionale ed empatica sarà appoggiata su un’architettura interna capace di generare emozioni in base a “modelli profondi” della cognizione e delle capacità sociali umane.» (3)
Questo significa che potenzialmente gli agenti robotici siano in grado di auto-organizzarsi, ricreando la complessità, tipica degli organismi biologici, dell’interrelazione tra la cognizione e le dinamiche fisiologiche di regolazione emozionale.
La terza via, diventata punto di incontro tra la robotica internalista ed esternalista, è rappresentata dall’approccio interazionista.
Quest’ultimo pensa i robot come agenti sociali progettati con sistemi emozionali interni e capacità di espressione esterna delle emozioni, quindi in grado di unire le due dimensioni delle emozioni. In questo modo i robot saranno in grado di creare dei circuiti affettivi con gli esseri umani, stabilendo delle relazioni empatiche con essi, tentando quindi di iscriversi nel processo cognitivo intersoggettivo che l’uomo è abituato a sviluppare fin dalla nascita.
Ed è quello che accade, a un certo punto, nel racconto di Urasawa: i robot più sperimentali e potenti al mondo sono capaci di provare delle emozioni interne autonome – come il desiderio di vendetta, la solitudine, il dolore per la perdita, la forza per gli affetti e i legami –, sviluppando delle risposte cognitive e comportamentali a esse.
Come tutti gli artefatti umani, anche Pluto è il prodotto di discussioni filosofiche, etiche e scientifiche, ma anche l’espressione di timori generati dal progresso dell’intelligenza artificiale che dotata di “libertà” è anche in grado di ribellarsi e di far scomparire l’umanità.
«La paura di una tecnologia che improvvisamente diventa “autonoma” riflette – tradisce, nel senso che traduce in un’altra lingua – uno dei principali effetti del ricorso a questi agenti. Si tratta della concentrazione del potere decisionale in un numero sempre più esiguo di persone, le quali pur credendosi sempre più potenti sono a loro volta vincolate dalle regole che tali macchine incorporano.» (4)
Ma non solo, è anche la paura più primordiale dell’incertezza e dell’incognita di noi stessi, come siamo fatti e come interagiamo, in quanto corpi e menti.
(1) Già nel 1920 lo scrittore cieco K. Čapek compose il dramma teatrale R.U.R. (Rossum’s Universal Robots), in cui i robot sono copie apparenti degli uomini, che da sottoposti alla fine si ribellano, distruggendo la razza umana.
(2) I. Senna, Uncanny Valley: dall’Olimpia di Hoffmann al robot Asimo, UNICApress, 2019, p. 7, https://doaj.org/article/333b3afddea043a48cb6bc9a7e2c68f5.
(3) P. Dumouchel, L. Damiano, Vivere con i robot. Saggio sull’empatia artificiale, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2019, p. 124.
(4) P. Dumouchel, L. Damiano, Vivere con i robot. Saggio sull’empatia artificiale, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2019, p. 193.
La foto di copertina è un’immagine ufficiale di Pluto. Il copyright della suddetta è pertanto di proprietà del distributore del film, il produttore o l’artista. L’immagine è stata utilizzata per identificare il contesto di commento del lavoro e non esula da tale scopo – nessun provento economico è stato realizzato dall’utilizzo di questa immagine. / This is an official image for Pluto. The image copyright is believed to belong to the distributor of the film, the publisher of the film or the graphic artist. The image is used for identification in the context of critical commentary of the work, product or service. It makes a significant contribution to the user’s understanding of the article, which could not practically be conveyed by words alone. No money were made by the use of this image
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