Blanchard vs. Blanchard: un matricidio moderno

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«Qualcuno pensa che i miei racconti siano solo colossali bugie. Ci tengo a dire che quanto ho scritto in questo libro è solo il fedele resoconto dei miei molti viaggi per mare e per terra e delle mie avventure di guerra e di caccia. Leggete e giudicate voi». (1)

Chi parla è il Barone di Münchausen, celebre menzognere, il quale secondo leggenda fu capace di sollevarsi dallo stagno dove era caduto tirando i suoi stessi capelli. Numerose sono le storie di cui se ne professa il protagonista, ma che, alla fine dei conti perdono la loro veridicità proprio per la loro strampalatezza. 

A lui dobbiamo il nome di una malattia psichiatrica non molto nota e la cui eziologia non è ancora delineabile – stiamo parlando della Sindrome di Münchausen: la creazione intenzionale e deliberatamente simulata di una malattia o dei suoi sintomi, dicasi “per Procura” (MSbP) qualora a subirne fosse unə bambinə o una persona dipendente.

Ma cosa spinge ad agire chi soffre di questa Sindrome?

Indubbiamente la spasmodica ricerca di attenzioni, di un riconoscimento e la propria celebrazione in una sorta di “angelo custode”. Il/la responsabile, quindi, “fabbrica” nella vittima i segni o i sintomi di una malattia vera e propria, altresì ne “fortifica” sintomi già preesistenti, avvalorandosi, di conseguenza, di grandi conoscenze in campo medico così da mostrare un sincero e amorevole interesse nei confronti del figliə. 

Emblematico, per chi non ne fosse a conoscenza, è il caso di omicidio di Dee Dee Blanchard (2015), caso che è stato oggetto del documentario della Hbo del 2017 Mommy Dead and Dearest e della miniserie di Hulu del 2019 The Act. Quest’ultima, in particolar modo, vede un bellissimo duo di attrici: Patricia Arquette e Joey King, rispettivamente la madre Dee Dee e la figlia Gypsy Rose, malata di leucemia, asma, distrofia muscolare (per citarne alcuni), nonché artefice del matricidio con l’aiuto del fidanzato Nicholas Godejohn.

Degno di nota è anche il libro di Gillian Flynn Sulla pelle (2006), dal quale hanno tratto una miniserie chiamata Sharp Objects (2018), con protagonista Amy Adams. C’è dunque una vasta letteratura e filmografia circa questa patologia, eppure tutt’oggi rimane difficile identificarne le reali cause e soprattutto chi ne è effettivamente affetto, in virtù della capacità del tutorə di celare la fonte dell’aggravarsi della malattia. 

«Di solito i pazienti scelgono sintomi o problemi fisici difficilmente documentabili o senza una precisa causa, come per esempio forti mal di testa, intensi dolori alla pancia, svenimenti. Possono provocarsi bruciature o lesioni, che volontariamente infettano, possono praticarsi salassi per diventare anemici, oppure assumere farmaci o altre sostanze nocive per indurre la malattia. A volte i comportamenti sono estremi e se non scoperti possono portare a interventi chirurgici, cercati deliberatamente dal paziente.» (2)

Tramite la storia di Gypsy e Dee Dee, ben esplicata nella miniserie (la “messa in scena”, per l’appunto) è facile stabilire questo rapporto materno tossico e malato.

La ricerca ostinata del genitore di ottenere sussidi e compassione da parte dei suoi interlocutori è mossa dalla volontà di diventare una figura benefattrice, quasi eroica, a causa del grande dolore che si deve sopportare, dei lunghi viaggi per gli ospedali che deve sostenere, le innumerevoli cure e pareri medici ai quali si va ricercando pur di salvare la propria prole.

Dietro a questo ostinato patimento vissuto dal caregiver, ci sono bambinə – o anzianə – vittime ignare di quel che sta accadendo, eppure ne viene quasi deificata più la figura genitoriale che quella del malatə stessə.

In entrambi i film, ma così come nella vita reale, le madri assumono il ruolo di veri e propri angeli custodi, sebbene la realtà fattuale sia l’opposto.

Sono numerose infatti le vittime che non trovano via di scampo a questa manipolazione fisica e mentale, o che continuano a portare le cicatrici di quanto sopportato.

Come si fa d’altronde a odiare chi si è preso costantemente cura di te, che ti ha protetto dal mondo e dalla sua malvagità, dalla malattia e dalla morte? 

O perlomeno, così si crede inizialmente, e così credeva Gypsy Blanchard, sino a quando non è riuscita a vedere oltre quella ragnatela di menzogne. Vedendo il mondo crollarle addosso, il solo mondo che conosceva, decide di intraprendere la via del non ritorno: soggiogare lei stessa gli altri, convincendo il suo fidanzato a uccidere la sua carnefice.

Dapprima la reazione di Gypsy è quella di rifiuto, addossa tutte le colpe al suo ragazzo, come se non fosse a conoscenza del matricidio che si stava per compiere di lì a poco, come se non avesse progettato lei stessa quella sola scappatoia dalla prigione creata da Dee Dee.

Gypsy Blanchard diventa il barone di Münchausen: colei che riuscì a liberarsi dal suo medesimo stagno tirandosi per i capelli, in virtù del farsi essa stessa madre e manipolatrice a sua volta. 

Ora Gypsy Rose è fuori da un’altra tipologia di prigione – quella legale – che tuttavia la reputa ben migliore da quella inflitta dalla sua genitrice, per la quale non prova alcun rancore: «Non volevo che morisse. Volevo solo uscire dalla mia situazione. E pensavo che fosse l’unico modo» (3).

Si poteva pensare a un destino diverso per lei?
Probabilmente riconoscerne i sintomi e adottare le terapie più adatte per situazioni simili avrebbe potuto salvare entrambe le donne, ma trattandosi di una malattia poco conosciuta e così ben celata il lavoro di sanitari e parenti diventa ben più arduo. 

Note:

(1) Rudolf E. Raspe, Gottfried A. Burger, Le avventure del Barone di Münchausen, Biancoenero edizioni, Roma, 2010, p. 19.

(2) https://www.ospedaleniguarda.it/news/primo-piano/leggi/la-sindrome-di-munchausen#:~:text=Si%20tratta%20di%20una%20patologia,di%20aver%20partecipato%20da%20protagonista.

(3) https://www.genzangels.it/gypsy-rose-blanchard-intervista/

Bibliografia e Sitografia: