Femminismo anticapitalista: Silvia Federici e il lavoro domestico 

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Nell’introduzione all’edizione italiana de Il punto zero della rivoluzione. Lavoro domestico, riproduzione e lotta femminista, Silvia Federici esprime in maniera molto chiara la propria adesione a un femminismo secondo cui «la “discriminazione di genere” non è un fattore solamente culturale ma ha radici materiali che affondano nell’organizzazione capitalistica del lavoro» (1).

In particolare, secondo Federici, è innanzitutto il lavoro domestico a rappresentare un «fattore centrale per definire lo sfruttamento delle donne nel capitalismo» (2).

Tale convinzione emerge sicuramente rinvigorita dalla sua esperienza di partecipazione attiva, negli anni Settanta, alla campagna internazionale “Salario al lavoro domestico”, promossa a Padova nel 1972. L’organizzazione che ne era a capo, di matrice marxista, recepiva stimoli provenienti dal movimento studentesco, dal movimento per i diritti civili e dall’operaismo italiano. Ma accoglieva, in particolare, le istanze provenienti dal movimento anticoloniale, che aveva acceso i riflettori sul «mondo dei lavoratori senza salario esclusi dagli annali della tradizione comunista» (3) e, dunque, sulla possibilità di includere in esso anche «la figura della casalinga proletaria» (4).

In questo fervido contesto, dunque, Federici ha l’opportunità di maturare una consapevolezza dotata di risvolti significativi per la sua riflessione: lo sfruttamento perpetrato dal capitale non è circoscritto allo spazio della fabbrica ma a esserne permeato è lo stesso ambiente domestico, interpretato anch’esso, da questo momento in poi, come terreno di lotta.

In questo senso, a riecheggiare in maniera evidente nella produzione di Federici, è la lezione appresa dall’operaismo attraverso la nozione di “fabbrica sociale” (5), capace di rendere conto, in maniera estremamente efficace, del carattere pervasivo del capitale e della destrezza con cui esso s’infiltra nella rete dei rapporti sociali, inclusi quelli familiari.

Sempre all’influenza dell’operaismo è riconducibile anche la particolare attenzione che Federici rivolge al significato politico del salario all’interno di un sistema economico capitalistico.

Nella sua prospettiva, essere lavoratori salariati vuol dire essere inseriti in un contratto sociale e di conseguenza, malgrado lo sfruttamento al quale ogni lavoratore e ogni lavoratrice nel sistema capitalistico sono sottoposti, significa avere perlomeno la facoltà di esprimere la propria contrarietà a date condizioni lavorative. Mentre assume le camaleontiche sembianze di compenso per il lavoro svolto, il salario è in realtà un espediente utile a occultare il profitto tratto dal lavoro non retribuito ma, nonostante questo, possiede un’innegabile valenza politica, quella di riconoscere il lavoratore e la lavoratrice come tali.

Facendo leva su questi argomenti, Federici risponde con fermezza alle obiezioni delle femministe e di una certa sinistra schierate in polemica contro la lotta per il salario al lavoro domestico e spiega come un’interpretazione strettamente economicistica del salario offuschi inevitabilmente la portata rivoluzionaria di questa battaglia: non si tratta semplicemente di esigere una retribuzione, ma di reclamare tutto ciò che essa comporterebbe.

L’ottenimento di un salario per il lavoro domestico, infatti, implicherebbe una totale trasformazione delle relazioni sociali e familiari.

Le premesse necessarie a comprendere gli esiti potenzialmente radicali di tale acquisizione sono delineate da Federici in un’analisi puntuale del tipo di narrazione che del lavoro domestico ci è stata consegnata da parte di un capitale affamato di rendita e guadagno facile.

Parlando del lavoro domestico come «della più grossa manipolazione, della più sottile e mistificata violenza che il capitale abbia mai perpetrato contro un settore della classe operaia» (6), Federici svela il grande inganno che il capitale ha ordito a discapito delle donne, inventando per loro una “natura” e affibbiando loro un ruolo da cui ha potuto estrarre gratuitamente un’enorme quantità di ricchezza.

Il lavoro domestico, infatti, è stato tradizionalmente descritto come un’inclinazione tipicamente femminile e, presentarlo in questi termini, è servito proprio a indurre le donne ad accettare di occuparsene persino alla condizione di non essere pagate. L’assenza di un salario per il lavoro domestico è senza dubbio una conseguenza del fatto che esso venga spacciato per «un atto d’amore» (7), ma è allo stesso tempo anche causa della sua svalutazione.

Una svalutazione che, oltre a riferirsi a un piano puramente economico, ha attecchito nell’immaginario collettivo tanto da consentire a Federici di affermare:

«[…] il fatto che il lavoro domestico non fosse retribuito, è stato il mezzo più potente per rafforzare l’opinione comune secondo la quale esso non è lavoro, impedendo alle donne di lottare contro di esso, se non durante le liti familiari che l’intera società è concorde nel ridicolizzare, svilendo così ancora di più le protagoniste di queste lotte. Siamo viste come bisbetiche, non come lavoratrici in lotta.» (8)

Se il lavoro domestico propriamente detto rappresenta soltanto una specifica articolazione di quello che, in senso più ampio, viene definito lavoro riproduttivo, ossia l’insieme «di attività e relazioni che quotidianamente rigenerano la nostra vita» (9), svolto generalmente dalle donne anche quando abbiano già un lavoro fuori casa, è chiaro che l’entità del guadagno che il capitale trae da questo carico di mansioni espletate a titolo completamente gratuito è grandissima.

Scrive Federici:

«[…] il capitale ha creato la casalinga per servire fisicamente, emotivamente e sessualmente il lavoratore maschio, per allevare i suoi figli, rammendare i suoi calzini, tirargli su il morale quando è a terra a causa del lavoro e dei rapporti sociali (che sono rapporti di solitudine) che il capitale gli ha riservato.»(10)

Attingendo all’aurea fonte del lavoro delle donne, il capitale ricava quindi le risorse attraverso cui concedere all’operaio e all’impiegato, alienati da ore di frenetica e intensa produttività, uno straccio di consolazione, un confortante e lauto compenso, un oppio grazie al quale accantonare, almeno per un po’, la frustrazione dell’ennesimo giorno di lavoro ingrato.

La casa come luogo in cui riversare tutto il senso di umiliazione accumulato in fabbrica e l’insoddisfazione dovuta a una quotidianità estenuante è descritta da Federici in maniera molto diretta: «[…] tanti più colpi l’uomo riceve al lavoro tanto più sua moglie dovrà essere allenata ad assorbirli» (11) e, ancora, «quanto più l’uomo è servo ed è comandato, tanto più comanda» (12).

Indirizzandoci verso una lettura critica dei rapporti matrimoniali, Federici riesce a dimostrare con quali morbose strategie il capitale continua ad agire da padrone nella sfera privata, forse persino più abilmente che in altri contesti.

Tra l’altro è ben comprensibile, a questo punto, perché la richiesta di salario non sia rivolta «ai mariti ma allo stato in quanto rappresentante del capitale collettivo» (13).

La «prospettiva rivoluzionaria» (14), in definitiva, risiede nel fatto che la domanda di salario, implicitamente, contesta il patetico racconto di una presunta natura femminile che, nel lavoro domestico, avrebbe trovato la sua espressione più sincera e, al contempo, reclama per le donne l’aperto riconoscimento della condizione di lavoratrici.

La lotta, puntualizza Federici, certo non si arresterà una volta raggiunto questo obiettivo.

Sarà, piuttosto, solo a quel punto che potrà veramente iniziare, innanzitutto perché, solo quando l’immensa fatica di generazioni di madri, figlie e sorelle sarà sottratta all’invisibilizzazione, l’unità del proletariato sarà ricostituita, lavoratori e lavoratrici, insieme, potranno orientare i propri sforzi contro il comune oppressore e i disegni del capitale verranno messi in crisi: proprio nel salario, infatti, esso ha individuato uno dei mezzi più efficaci attraverso cui attuare la divisione sessuale del lavoro e, così, privare di coesione la classe operaia.

Nello stesso titolo del saggio del ’74 in cui Federici sostiene le posizioni sino a qui enunciate, Salario contro il lavoro domestico, è significativamente dichiarato che la conquista di una retribuzione per questo lavoro rappresenta solo il punto di partenza imprescindibile per rifiutarlo.

Questa iniziale posizione di categorico rifiuto del lavoro domestico si evolverà nel corso della lunga riflessione di Federici sul tema, lasciando spazio, in seguito, al proposito della sua “valorizzazione” (15), perseguito attraverso la ricerca di forme di realizzazione del lavoro domestico compatibili con il progetto di liberazione delle donne dal giogo della sua strutturazione capitalistica.

(1) S. Federici, Il punto zero della rivoluzione. Lavoro domestico, riproduzione e lotta femminista, trad. it. a cura di A. Curcio, Ombre Corte, Verona, 2020, p. 13.

(2) Ivi, p. 21.

(3) Ibidem.

(4) Ibidem.

(5) Ivi, p. 22.

(6) Ivi, p. 32.

(7) Ivi, p. 33.

(8) Ibidem.

(9) Ivi, p. 19.

(10) Ivi, p. 34.

(11) Ibidem.

(12) Ibidem.

(13) Ivi, p. 24.

(14) Ivi, p. 35.

(15) Ivi, p. 7.