«[…] per qualche giorno nutriti di cibi pessimi e scarsi, vesti abiti ruvidi e rozzi e poi chiediti “È questo ciò che temo?”» (1)
Cosa significa frugalità e perché, in una società basata sul consumo, dovremmo frenare le nostre tendenze fagocitative?
Possiamo davvero allontanarci dalla “morale della soddisfazione” (2) che ci insegna, se non impone, l’economia capitalista?
“Frugalis” – dal latino “utile” – e “frux” – “frutto” o “profitto” – sono all’origine della parola Frugalità.
I suoi significati coprono uno spettro che da accezioni negative quali spilorcio, avido e povero arriva a connotazioni virtuose come spontaneo, misurato e puro.
Pensiamo alla frugalità quando apprendiamo la vita di Diogene di Sinope, che decise di vivere entro una botte, in coerenza con la sua filosofia basata sul rifiuto di tutto ciò che è superfluo alla mera sopravvivenza; ma pensiamo ad essa anche in situazioni meno drastiche, quando – ad esempio – sentiamo di amic* che scelgono di vivere in campagna, dedicandosi a una vita più lenta, priva di centri commerciali e social network.
Così come tutti i significati variano nel tempo, nei luoghi e nelle culture, anche la parola che abbiamo preso in considerazione risente di una sua relatività storica e culturale; ciononostante, possiamo risolvere il ventaglio di significati che ha via via assunto.
Essere frugali ha da sempre significato essere parsimonios*, ma voleva anche dire essere autonom* e spesso si riferiva all’autenticità della vita immers* nella natura, accontentandosi dei piaceri semplici che offre; infine, vi era una frugalità spirituale, un ascetismo utile ad allontanarsi dal mondano per ricercare la purezza dello spirito.
Riprendendo l’esempio di prima, chi è più frugale, Diogene o Thoreau?
Henry David Thoreau, a differenza di Diogene non visse in una botte tra le vie della Corinto del IV secolo a.C., ma decise di trascorrere più di due anni – tra il 1845 e il 1847 – in una capanna da egli stesso costruita lungo le sponde del Lago Walden nello stato del Massachusetts nel tentativo di vivere in modo essenziale in intimità con la natura (4).
Seppur condividano uno slancio essenzialista le due biografie non sono comparabili, i tempi e le culture – quella greca antica e quella moderna statunitense – poggiano su assunti, possibilità, standard ed esigenze diverse.
Quando si parla di frugalità è bene tenere a mente che non è una gara a chi spende meno, o a chi più si apparta; è invece essenziale tentare di capire quali sono i pro e i contro di una vita con minori consumi non solo in termini di denaro, ma anche di spirito, risorse naturali, tempo e bisogni.
I motivi che storicamente si sono annoverati a favore della frugalità sono: che è una virtù, e come tale è buona per sé; che uno stile di vita semplice allontana l’animo dalla corruzione; che preserva chi la pratica dalla rovina economica; che forgia un carattere più resiliente e umile e, infine, che l’essere frugali mantiene il corpo in salute e preserva l’ambiente.
Tuttavia, per ognuna di queste affermazioni possiamo immaginare un risvolto negativo.
Ad esempio, uno stile di vita troppo semplice potrebbe avvicinarsi alla povertà e questa costringere i malcapitati a dipendere dalle altre persone per sopravvivere, dicendo addio sia all’autosufficienza che alla rettitudine, con buona pace della rovina economica già avvenuta.
Che fare, allora?
Per capire come orientarsi oggi dentro il tema della frugalità dobbiamo dare uno sguardo più da vicino al contesto che fa da sfondo a ogni nostra scelta etica, politica o economica che sia: il capitalismo.
Da circa due secoli ci viene insegnato che essere brav* cittadin* significa partecipare attivamente, al benessere della nazione; ma in una società capitalistica – basata perciò sulla costante crescita economica – questo si traduce anche, e soprattutto, nell’essere persone consumatrici.
Il consumo non è solamente l’altra faccia della produzione, è ciò che sostiene l’intero sistema economico. Viviamo in un ciclo infinito di produzione mantenuto in perpetua crescita dalla sempre nuova creazione di bisogni utili a generare una domanda di merci e – quindi – un consumo di prodotti intrinsecamente volti all’obsolescenza fin dalla loro origine.
Il fine non è più soddisfare i bisogni sorti in capo alle persone ma, piuttosto, creare bisogni nelle persone, così da assicurare all’economia una continua crescita.
Un «consumo forzato [che] produce di continuo un mondo da buttar via» (5).
«Perché il consumismo […] crea in noi una mentalità a tal punto nichilista da farci ritenere che solo adottando, in maniera metodica, e su ampia scala, il principio del consumo e della distruzione degli oggetti, possiamo garantirci identità, stato sociale, esercizio della libertà e benessere» (6)
Ed è qui, nel tratto nichilistico della nostra società che scoviamo il vero problema: abitiamo un mondo fatto di oggetti creati per perire nel più breve tempo possibile. Un mondo del genere non è più qualcosa di durevole e riconoscibile, non è più un ambiente capace di creare un senso di continuità nello spazio-tempo, né un mondo in grado di consentire relazioni, identità e legami storici, culturali e intimi.
È piuttosto un contesto che abbandona il soggetto in un presente infinito slegato da ogni continuità possibile, passata o futura che sia.
Infatti, se tutto ciò che esiste non sono le cose, ma la loro mera distruzione e ricreazione infinita, la nostra identità viene a mancare di riferimenti fermi e durevoli e, così, si risolve in un insieme di bisogni dettati dal mercato e finalizzati, non più al benessere del soggetto, ma a quello dell’apparato di produzione.
«Molte persone conducono vite stressate e complicate per fare più soldi o per fare carriera. Quelli di noi che se lo possono permettere, e molti che non se lo possono permettere, comprano in continuazione ogni sorta di aggeggi e dispositivi superflui per risparmiarsi la piccola seccatura di fare un minimo sforzo […] Nel complesso, la nostra cultura sembra ben lontana dal tipo di ideali propugnati dai fautori della semplicità frugale.» (7)
Siamo ormai entro un sistema pervasivo che pare non lasciare grandi libertà se non quella di scegliere “liberamente” quale bisogno – dettato dal mercato – assecondare oggi. Tuttavia, sebbene il soggetto singolo non possa cambiare l’intero apparato, è possibile – forse – riappropriarci di altri piaceri che esulino dal consumo, avvicinandoci ad una qualche forma di frugalità cucita su misura, in modo da allontanarci per vedere meglio chi siamo e immaginare nuove forme di vita.
Se tutt* diventassero frugal*? Se ognun* di noi riducesse i suoi consumi superflui (a ognuno scegliere cosa intende per “superfluo”) cosa succederebbe?
È quello che si chiede Emyrs Westacott:
«Probabilmente sarebbe più facile dire quali attività economiche sopravviverebbero che stabilire quali soccomberebbero. […] Il problema di fondo è che l’economia nella quale siamo immersi richiede un livello decisamente alto di attività economica continuativa anche solo per rimanere in piedi. In particolare, richiede che un sacco di gente compri un sacco di cose.» (8)
Il sistema per come lo conosciamo collasserebbe, ma forse nuovi orizzonti si potrebbero aprire, si potrebbero almeno immaginare:
«L’argomento che il nostro benessere economico dipende dal mantenimento o dall’accrescimento degli attuali livelli di produzione e di consumo soffre di mancanza di immaginazione.» (9)
In conclusione, la frugalità sembra essere ancora una scelta intelligente per preservare le proprie finanze – e forse anche parte delle proprie virtù – ma ancor di più pare essere uno dei pochi modi utili per «recuperare la nostra presenza nel mondo, una presenza attiva e partecipe” e, a tale fine “dobbiamo rivisitare i nostri miti […] sottoporli a critica […]» (10) aprirci all’incertezza, alla crisi delle idee che ci hanno accompagnato, perché «[…] chi non ha il coraggio di aprirsi alla crisi, rinunciando a quelle idee-mito che finora hanno diretto la sua vita, non guadagna in tranquillità, ma si espone a quella inquietudine propria di chi più non capisce, più non si orienta» (11).
La frugalità, allora, potrebbe essere una pratica per indagare il possibile: rifiutando di assecondare ogni nostro – e del mercato – desiderio consumistico ci mettiamo alla prova, sfidiamo le narrazioni che fino ad ora hanno orientato le nostre scelte.
E chissà potremmo anche guadagnarci in virtù.
- Lucio Anneo Seneca, Lettere a Lucilio, Garzanti, Milano, 2015, cit. p. 89.
- Umberto Galimberti, I vizi capitali e i nuovi vizi, Feltrinelli, Milano, 2018, cit. p. 12.
- Henry David Thoreau, Walden or Life in the Woods, Ticknor and Fields, Boston, 1854.
- Umberto Galimberti, I vizi capitali e i nuovi vizi, Feltrinelli, Milano, 2018, cit. p. 69.
- Ivi, cit. p. 67.
- Emyrs Westacott, Frugalità: Storie della vita semplice, Luiss University Press, Edizione Kindle, cit. posizione 2185.
- Ivi, cit. posizione 3468.
- Ivi, cit. posizione 3545.
- Umberto Galimberti, I miti del nostro tempo, Feltrinelli, Milano, 2019, cit. p. 12.
- Ibidem.
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