Rabbia, attenzione, volgarità, ambizione, potere, violenza, lussuria: le donne se ne devono tenere alla larga, o almeno così viene insegnato loro.
Sono “peccati” che vengono educate a evitare, attributi che non devono cercare per sé. La tesi di Mona Eltahawy è che siano invece Sette peccati necessari – questo il titolo del saggio pubblicato per la casa editrice Le Plurali.
L’autrice scrive il suo manifesto contro il patriarcato perché ne ha abbastanza «di offrire a donne e ragazze solo modi per sopravvivere, invece che strumenti per reagire. Il senso di pericolo e la paura che dovrebbero suscitare il femminismo e la resistenza non devono essere eliminati. Il femminismo dovrebbe terrorizzare il patriarcato. Dovrebbe avvertirlo che non vogliamo niente di meno che la sua distruzione» (1).
L’idea di cui si fa portatrice Mona Eltahawy (2) è dirompente e consiste nel rigettare tutti gli insegnamenti che ci propina il patriarcato.
Per questo motivo occorre vedere il risvolto positivo – che il patriarcato nasconde – di quei “sette peccati”, scoprendo che in questo modo possono diventare degli strumenti in mano alle donne nella loro lotta di liberazione.
La pervasività e la violenza del patriarcato lo rendono un sistema basato sulla paura.
Le donne pensano di non avere la possibilità o la facoltà di reagire e di dover rimettere ad altri uomini la facoltà di difenderle. Da qui la necessità di un femminismo “forte, aggressivo, impudente”, per usare le parole scelte dall’autrice, che sia attento a tutti i sistemi di oppressione: la transfobia e l’omofobia, il razzismo, il classismo, l’ageismo e l’abilismo.
Un femminismo che consenta alle persone di essere libere.
La rabbia è importantissima invece e va coltivata. «La rabbia è quel ponte che porta il femminismo da un’idea a qualcosa di reale, dal pensiero “Come diamine è possibile che stia accadendo?” a “Merda, questo deve finire» (3).
Per Eltahawy
«dobbiamo insegnare alle bambine che la loro rabbia è un’arma preziosa per sfidare, trasgredire, contrastare il patriarcato, che cerca invece di annientarla e soffocarla. Le educa all’accettazione e all’accondiscendenza, perché bambine obbedienti crescendo diventeranno operaie nelle fila del patriarcato» (4).
Di conseguenza, per l’autrice un femminismo che si preoccupi di non spaventare gli uomini, che rispetti la cultura e la tradizione non porta da nessuna parte.
L’attenzione è invece un’arma a doppio taglio usata nei confronti delle donne. Una donna che riconosce di avere pienamente diritto ad esprimersi o che protesta è spesso accusata di farlo solo “per attirare l’attenzione”, qualcosa che le donne sono abituate a dare, più che a ricevere.
Allo stesso tempo, la negazione di attenzione è utilizzata dal patriarcato come sanzione per le donne che si discostano dal canone di femminilità standardizzato che viene imposto, come per esempio le donne grasse o disabili.
Molto stimolante è anche la riflessione di Eltahawy sul concetto di volgarità: chi è che decide cosa sia “civile” o “educato” dire e cosa invece non va detto perché “maleducato”?
Chi è che beneficia del mantenimento di questi codici sociali?
Tra i moltissimi modi in cui il patriarcato si assicura la soggezione delle donne e il mantenimento dello status quo c’è infatti anche la regolamentazione del linguaggio. Dobbiamo iniziare a pensare invece che «la volgarità è uno strumento essenziale per turbare il patriarcato e le sue regole. È l’equivalente verbale della disobbedienza civile» (5).
Rispetto al concetto di ambizione Eltahawy ci porta a riflettere su come il patriarcato si intersechi con dinamiche di classe, di razza e di censo. É fondamentale che gli insegnanti in particolare modo si rendano conto del peso che hanno le loro aspettative sull’effettivo successo dei propri alunni, e di come queste aspettative non siano esenti dai pregiudizi di un sistema patriarcale.
Il potere, laico e religioso, da sempre regolamenta e legifera sui corpi e sulle vite delle donne.
L’autrice ci invita a diffidare di quelle che salgono al potere in partiti che però mirano a mantenere lo stato di subordinazione delle donne nella società. Occorrono invece persone femministe che ambiscano al potere per sradicare il sistema vigente.
Dobbiamo, per Eltahawy, fare della violenza «una forma legittima di resistenza» (6).
La violenza perpetrata dagli uomini nei confronti delle donne e degli altri gruppi oppressi è quotidiana e sistematica, anche se fa poca notizia, tanto è dato ormai per scontata. Le poche vicende che raggiungono l’attenzione dei media sono fatte passare per casi eccezionali e straordinari. Elthahawy ci invita a renderci conto che «dobbiamo mettere in connessione l’uso della violenza sessuale come arma di guerra, con l’uso più ordinario e quotidiano a livello globale della violenza sessuale come un’arma della guerra del patriarcato contro donne e ragazze» (7).
Infine, il capitolo sulla lussuria ci porta a ragionare su come siamo socializzatə all’eterosessualità e alla monogamia, su come le donne siano educate al pudore e come molte culture e religioni considerino la verginità delle donne un valore di massima importanza. Tutto questo le porta a negare il proprio desiderio, in primis a se stesse, invece è ora che se ne riapproprino senza vergogna o sensi di colpa.
«Il patriarcato è universale. Il femminismo deve essere altrettanto universale. (…) Voglio che il patriarcato sappia che il femminismo è una rabbia scatenata contro secoli di crimini contro donne e ragazze in tutto il mondo, crimini che vengono giustificati con la “cultura” e la “tradizione” e il “è così che vanno le cose”, tutti eufemismi per dire “questo mondo è governato dagli uomini, a vantaggio degli uomini”. Dobbiamo affermare un femminismo che sia forte, aggressivo, impudente. È l’unico modo per combattere un patriarcato che è sistemico» (8).
Grazie le plurali!
NOTE
- Mona Eltahawy, Sette peccati necessari – manifesto contro il patriarcato, le plurali Editrice, Roma, 2022, p. 31.
- Eltahawy ha una lunga storia di attivismo alle spalle. Nata in Egitto, si trasferisce da bambina in Gran Bretagna grazie a una borsa di studio vinta dai genitori. Durante l’adolescenza si trasferisce in Arabia Saudita e qui tocca con mano il sistema estremamente oppressivo di cui sono vittime le donne, sviluppando il suo pensiero femminista. Diventata una giornalista e corrispondente per importanti testate internazionali, si trasferisce negli Stati Uniti di cui diventa anche cittadina. Dà il via al #MosqueMeToo, raccontando della propria esperienza di aggressione sessuale subita quando aveva quindici anni e stava compiendo un pellegrinaggio a La Mecca e al #IBeatMyAssaulter, raccontando di come anni dopo reagirà picchiando un uomo che l’aveva molestata in una discoteca. Le vicende biografiche dell’autrice sono intrecciate nel libro a storie di altri luoghi e tempi per costruire le argomentazioni a favore di un femminismo che sia forte e globale.
- Ivi. p.42.
- Ivi. p. 35.
- Ivi. p. 97.
- Ivi. p. 231.
- Ivi, p. 235.
- Ivi. pp.19-20.
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