La poesia geroglifica in Cristina Campo

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La voce poetica di Cristina Campo è tra le più dense e rilevanti nel panorama culturale italiano del secolo scorso.

Collocandosi in una lunga tradizione letteraria e filosofica in cui il linguaggio non viene considerato come qualcosa di trasparente, bensì sempre simbolico, la poeta bolognese sviluppa una visione peculiare, che intende la vera poesia come essenzialmente geroglifica

La parola poetica, infatti, non si propone come mero strumento di rivelazione, bensì, al centro di un crocevia tra arte e metafisica, emerge come veicolo di una fitta rete di corrispondenze e analogie capaci di svelare una verità ineffabile e trascendente.

Per Campo, dunque, il ruolo del poeta non è quello di chiarire o esplicare, bensì di tracciare dei segni, nel cui solco si delinea la traccia per un’espressione più originaria della realtà, accessibile solo a una lettura intuitiva e contemplativa. 

Con una scrittura fortemente allegorica, il fulcro della poetica di Campo risulta essere il simbolo, il quale emerge analogamente nella fiaba, genere letterario a lei particolarmente caro.

Scrive, infatti, che nella fiaba si delinea un «campo magnetico di visioni, di prodigiose economie simboliche» (1). Fiabe, vangeli e parabole sono i luoghi per eccellenza delle analogie, e si inseriscono in un universo simbolico in cui ogni ente, concetto o sentimento appare come un «puro specchio ed eco» (2). La trama che ne emerge è di una realtà strettamente interconnessa, in cui ogni essere è gravido di significati e connessioni, inserendosi in un invisibile ordine di senso. 

La poesia campiana è da intendersi come forma di mediazione, in cui, grazie a una specifica facoltà attentiva (qui il rimando è chiaramente a Simone Weil, autrice di riferimento della poeta), ci permette di inserirci nella realtà e di darle forma e voce.

Tramite il linguaggio poetico, dunque, si producono parole che emergono «nella chiarezza dello spirito come fiori, […] scandite dalle loro vocali e consonanti come da petali e nervature» (3). Come scrive Maria Concetta Sala in Voci oranti di donna: «la poesia è puro esercizio di virtù negativa […], grazie alla quale si impara a discernere la propria esclusiva melodia, che sopraggiunge a sua volta in modo misterioso attraverso segni, avvertimenti, inviti» (4).

Attenzione, discernimento, disvelamento: sono questi i processi che si avviano intorno all’idea di cui l’immagine poetica è portatrice, in modo tale da riempirla di significato, di cui solo chi scrive ha il grimaldello per accedervi.

«La pura poesia è geroglifica: decifrabile solo in chiave di destino. Per anni tornare estatici alla bellezza delle anatre, degli arcieri, degli dèi con la testa di cane o di nibbio, senza neppure sospettarne la fatale disposizione. […] Ma intorno alla loro posizione segreta, finchè la mia stessa sorte non me ne diede la chiave, giravo ciecamente: come intorno a una colonna istoriata di cui scoprissi solo una figura alla volta: lo scriba, il serpente, l’occhio.» (5)

La poesia, così come la fiaba, poggiano su un insieme intricato di segni, enigmi, simboli criptici, «geroglifici dorati, quei verdi ideogrammi di una presenza perfetta» (6), gettando le basi al pensiero per un linguaggio sempre «promesso e differito» (7), inafferrabile se non a chi lo crea. Ed è proprio questo processo immaginifico e creativo che ci fa arrivare, con un’infantile tenerezza, il senso in cui Cristina Campo intende la generazione di tale linguaggio privato.

«Inventiamo un alfabeto di geroglifici nostri? Orcio vuol dire amore, cesta di pane fede, pesce metamorfosi e via dicendo» (8) scriverà in una lettera alla sua cara amica Mita, scherzosamente allegando dei disegni di vasi in terracotta come saluto affettuoso. 

Il geroglifico ci appare dunque come un segno, rimando a qualcosa che appare ancora più celato e segreto di una lingua a noi sconosciuta scritta con un sistema alfabetico.

Infatti, vi è una maggiore e più profonda corrispondenza con una realtà che appare sostanzialmente limitata. Con un sistema geroglifico, al contrario del sostanziale illimitato numero di combinazioni possibili in un linguaggio alfabetico, l’inventrice, o inventore, si stacca dall’imposizione del significante della lingua, descrivendo e creando nessi in modo completamente arbitrario. In un linguaggio geroglifico, si scelgono le parole da rappresentare.

Non è infatti un caso che Campo scelga Amore come termine di partenza della sua scrittura privata. 

Lingua di bambina, che descrive un mondo di bambina, la poesia geroglifica, con la pienezza unica del significante, svela con assoluta semplicità il modo in cui il processo di interconnessione della realtà investe chi scrive, in una visione fortemente mediata dall’altra stella fissa della riflessione di Cristina Campo, lo scrittore Hugo von Hofmannsthal, per cui tutto il mondo è un complesso di simboli.

In un universo in cui tutto è celato da un leggero velo che vibra di corrispondenze, «le favole, i racconti mitici, io li volevo dispiegare come i geroglifici di una misteriosa, inesauribile saggezza» (9). 

  1. C. Campo, Gli imperdonabili, Adelphi, Milano, 1987, p. 128.
  2. Ivi, p. 126.
  3. Ivi, p. 165-166. 
  4. M.C. Sala, “Voci oranti di donna”, in I. Adinolfi, G. Gaeta, Preghiera di donne, il Melangolo, Genova, 2021, p. 20. 
  5. Gli imperdonabili, p. 145.
  6. Ivi, p. 20.
  7. Ibidem.
  8. C. Campo, Lettere a Mita, Adelphi, Milano, 1999, p. 55. 
  9. H. von Hofmannsthal  Lettera a Lord Chandos, Rizzoli, Milano, 1974, p. 41. 

Bibliografia:

H. von Hofmannsthal  Lettera a Lord Chandos, Rizzoli, Milano, 1974. 

I. Adinolfi, G. Gaeta, Preghiera di donne, il Melangolo, Genova, 2021. 

C. Campo, Gli imperdonabili, Adelphi, Milano, 1987. 

C. Campo, La tigre assenza, Adelphi, Milano, 1991. 

C. Campo, Lettere a Mita, Adelphi, Milano, 1999.