“Zitta, donna!”: fenomenologia del linguaggio pornografico

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«Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare»: questo modo di dire popolare sembrerebbe porsi agli antipodi di una teoria avanguardistica della filosofia del linguaggio del Novecento, vale a dire quella degli atti linguistici.

In quegli anni gli studiosi iniziarono a scindere la comunicazione entro due aspetti: quello informativo  — ossia della mera trasmissione di nozioni di verità, conoscenza e comunicazione  — e quello performativo (dal verbo inglese to perform, per l’appunto), vale a dire la capacità di creare, influenzare e veicolari messaggi sociali e ideologie.

Un prominente capostipite di questa nuova dimensione del linguaggio fu John Austin, il quale esplicò la sua innovativa filosofia attraverso lo scritto Fare cose con le parole (1), dove espose per la prima volta la sua teoria degli atti linguistici, enfatizzando il concetto di azione all’interno dei nostri enunciati.

Austin sostiene che gli atti linguistici – così chiamati proprio per sottolineare l’accezione di azione, atto, implicita nel parlare, e le sue conseguenze – si possano leggere sulla base di tre “sfumature”: 

«atto locutorio o atto di dire qualcosa (proferimento di un enunciato sintatticamente ben formato e dotato di significato), atto illocutorio o atto che si compie nel dire qualcosa (azione compiuta attraverso il proferimento dell’enunciato), atto perlocutorio o atto che si compie col dire qualcosa (conseguenze non convenzionali dell’enunciato proferito)» (2).

Occorre domandarci dunque quanto il linguaggio effettivamente sia capace di influenzare e veicolare il mondo circostante. Le parole che utilizziamo e che ascoltiamo tutti i giorni hanno veramente un peso?

Per Austin la risposta è sì: il linguaggio assume una dimensione politica non indifferente, specchio della società e in quanto tale riflesso delle disuguaglianze sociali generate attraverso la parola. 

Ne è un esempio il cosiddetto hate speech, che viene a configurarsi come il codice attraverso cui il linguaggio contribuisce a creare o rinforzare concetti come il sessismo, la discriminazione di razza e di genere, in virtù della intrinseca connessione alle pratiche sociali che la parola possiede. 

Di particolare interesse, inoltre, è indagare su come il linguaggio possa generare il silenzio.

Sembra paradossale pensare una cosa del genere, quindi procediamo con ordine. La prima cosa che ci viene in mente pensando al silenzio è il mutismo come reazione: può assumere la forma più pericolosa e violenta di risposta, basti pensare alle scaramucce che possiamo avere con i nostri cari, sino a casi estremi come l’assenza di denunce o consenso. Ma non è alla reazione muta alle parole o azioni di qualcun altro che ci stiamo riferendo, bensì a quello che in filosofia del linguaggio prende il nome di silencing.

Si tratta del fenomeno in cui una persona esprime qualcosa, ma non vengono compresi da chi ascolta il significato e la reale accezione di ciò che ha espresso.

La filosofia del linguaggio femminista ha ampiamente dibattuto questo concetto, accostandolo alla teoria degli atti linguistici di Austin; in particolar modo, ponendo la sua lente d’ingrandimento sul contesto della pornografia e il suo ridurre al silenzio le donne.

Gli esempi portati alla luce sono molteplici: uno di questi si fonda sulla constatazione che

«spesso, in film e materiali pornografici di vario genere, quelli che cominciano come stupri sfociano poi in atti sessuali dai quali anche la donna trae godimento. Il suo iniziale rifiuto è presentato come una mera messa in scena allestita allo scopo di fingere pudore e, al contempo, accrescere l’eccitazione dell’uomo. Alcuni fruitori di pornografia potrebbero per questo non riconoscere il “no” delle loro potenziali partner come un rifiuto, ma interpretarlo come parte del gioco, come una strategia messa in atto per accrescere il desiderio maschile» (3).

Studiose come Rae Langton e Jennifer Hornsby, che rileggono Catharine MacKinnon, avvocata e scrittrice statunitense, promuovono la tesi secondo cui nel porno, in termini non tecnici, la donna abbia sì la possibilità di dire qualcosa, ma senza che venga recepito. Ad esempio, possono rifiutare un approccio sessuale, ma il valore di diniego insito nel rifiuto non viene riconosciuto.

In termini tecnici, le è concesso l’atto locutorio (dire qualcosa di senso compiuto), ma non quello illocutorio (vedere riconosciuti valore e significato di ciò che dice). 

Il mancato riconoscimento del “no” come atto illocutorio porta al suo fallimento, in quanto il significato convenzionale che la società assume attorno alla negazione non viene portato in atto.

Il rifiuto, nello specifico, viene classificato come un “atto linguistico autoritativo”, vale a dire azione che prevede una precedente richiesta di permesso da parte di una prima figura e, di conseguenza, una seconda figura che ha l’autorità di accettare o meno la richiesta. Nel contesto pornografico, l’autorità della donna sul proprio corpo non viene riconosciuta, conseguentemente non lo è il suo rifiuto: è la filosofa Mary Kate McGowan a sottolineare quello che chiama “disconoscimento dell’autorità del parlante” come altra modalità di silencing. Tuttavia Caponetto svela una fallacia in questa teoria: se l’autorità della donna viene negata, ma è quella che si presuppone debba esistere per rifiutare, siamo di fronte a un corto circuito. Ad ogni modo, ciò non toglie nulla al ragionamento secondo cui la donna viene puramente oggettificata.

All’interno del contesto pornografico, la ricezione del significato del rifiuto è messa in pericolo costantemente, camminando su un percorso impervio e sabbioso. Nella fattispecie il concetto di “no” non ottiene il riconoscimento del suo reale significato.

Questa indagine filosofica ci permette di porre l’attenzione su concetti innovativi e presi forse troppo poco in considerazione.

La teoria austiniana del linguaggio suggerisce infatti di indagare ben oltre il primissimo strato di comunicazione che vige tra chi parla e chi ascolta, in quanto la realtà linguistica prevede dimensioni ben più nascoste, implicite e sottili.

Basta veramente poco per intravedere o disputare sul linguaggio, a partire proprio dal quotidiano, dalle singole azioni e immagini che scorrono sotto i nostri occhi.

(1) John L. Austin, How to Do Things with Words (1962); trad. Come fare cose con le parole, Marietti, Genova-Milano, 2008.

(2) Laura Caponetto, Filosofia del linguaggio femminista, atti linguistici e riduzione al silenzio, 2019, p. 149.

(3) Ivi, p. 150. L’autrice analizza la teoria di MacKinnon riletta da Hornsby e Lengton alla luce di quella di Austin.

Bibliografia: 

– Emiliana Galiani, La pornografia come atto linguistico: dimensione illocutoria e perlocutoria del performativo, in Esercizi Filosofici, vol.VI, 2011.

John L. Austin, How to Do Things with Words (1962); trad. Come fare cose con le parole, Marietti, Genova-Milano, 2008.

Laura Caponetto, Filosofia del linguaggio femminista, atti linguistici e riduzione al silenzio, 2019.

Claudia Bianchi, Parole come pietre: atti linguistici e subordinazione, in Esercizi Filosofici, vol.X, n.2, 2015.