Jin, jiyan, azadi – liberə tuttə

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Da poco è trascorso l’8 marzo e le piazze delle città italiane e di tutto il mondo si sono trasformate in maree fucsia, viola e verde, colorando le strade di una protesta potente e visibile.

Migliaia di donne e persone transfemministe hanno risposto all’appello di Non Una di Meno, partecipando a uno sciopero che ha coinvolto il lavoro produttivo, riproduttivo e di cura, così come il boicottaggio dei consumi. Un gesto radicale di disobbedienza, volto a contrastare la perpetuazione di un sistema sociale sempre più violento e autoritario, che opprime le vite e le libertà di chi sfida i sistemi di potere patriarcali, capitalisti e razzisti (1).

In Italia la situazione non è diversa: anche nel nostro Paese prevalgono le logiche di potere, con una politica che non vuole affrontare le cause profonde della violenza di genere né promuovere pari opportunità e inclusione sociale.

Al contrario, gli esponenti del Governo rafforzano misure per istituire la sicurezza, la punizione esemplare, il controllo, la repressione e l’ordine. 

Nelle scuole l’educazione sta diventando sempre più militarizzata e incentrata sulla disciplina, con programmi scolastici che adottano un apprendimento puramente enciclopedico, piuttosto che stimolare uno spirito critico riguardo alle problematiche sociali contemporanee. Inoltre, i fondi delle scuole destinati all’educazione sessuale e affettiva sono stati dirottati alle tematiche della fertilità maschile e femminile, con particolare riferimento all’ambito della prevenzione delle infertilità. Questo perché non c’è alcuna volontà di decostruire pregiudizi, stereotipi e ruoli patriarcali, ma piuttosto un intento chiaro di preservare un conservatorismo intriso di disuguaglianze sociali. 

In questo contesto il governo Meloni ha celebrato la data dell’8 marzo introducendo il reato autonomo di femminicidio punibile con l’ergastolo; un provvedimento che si inserisce coerentemente nel quadro legislativo del DDL Sicurezza e nell’intensificazione delle azioni repressive e dei controlli da parte della polizia. Una mossa strategica che sfrutta il tema della violenza di genere per fini populisti.

Infatti, i dati evidenziano chiaramente che un metodo d’intervento securitario non potrà fermare i femminicidi né la violenza patriarcale, che è profondamente radicata nella nostra cultura e nella quotidianità. Proporre quindi, misure punitive come soluzione a problemi sociali è l’ennesima dimostrazione di una logica da “ordine pubblico”, completamente priva di una minima comprensione delle radici culturali e sociali della violenza di genere. 

L’unica strada percorribile è quella di abbracciare un femminismo intersezionale, abolizionista e decoloniale, capace di promuovere pratiche di prevenzione e intervento che smantellino le categorie discriminatorie e violente del patriarcato.

Le violenze di genere non sono fenomeni isolati, ma il prodotto di secoli di narrazioni sociali che giustificano l’oppressione delle donne, delle persone LGBTQIA+ e delle minoranze.

Un approccio intersezionale, non si limita a considerare la dimensione di genere, ma implica anche altre forme di discriminazione, come il razzismo, il classismo e l’abilismo, che si intrecciano con il sessismo e ne rinforzano i meccanismi.

Solo attraverso una lotta che metta al centro le esperienze di chi è oppressə, su molteplici piani, potrà davvero decostruire le strutture di potere che perpetuano l’ingiustizia. 

Con il motto «Jin, jiyan, azadi» – che significa «Donna, vita e libertà»le donne curde stanno dimostrando che è possibile costruire un’alternativa concreta all’autoritarismo dello Stato-Nazione, al capitalismo che riduce gli esseri umani e le loro relazioni a meri strumenti di produzione, e alla logica patriarcale che giustifica lo sfruttamento delle persone e dell’ecosistema. Le donne nel Kurdistan stanno guidando una rivoluzione che non solo sfida l’ordine politico ed economico dominante, ma promuove una visione radicalmente diversa di democrazia e giustizia sociale. La loro lotta non riguarda solo la liberazione delle donne, ma la liberazione di tuttə coloro che sono oppressə da un sistema che sfrutta, divide e marginalizza. 

Questa resistenza, che emerge tra le comunità curde, trova una delle sue espressioni più drammatiche e potenti in Iran, dove la condizione delle donne è estremamente complessa e difficile. A partire dalle proteste del 2022, scatenate dall’omicidio di Masha Amini da parte della polizia morale, il numero di detenute nella sezione femminile del carcere di Evin è in continua crescita. Le autorità iraniane hanno risposto con una serie di arresti mirati, tentando di soffocare un movimento femminista e rivoluzionario che minaccia le fondamenta del regime.

Le attiviste curde, in particolare, vivono una condizione di oppressione multipla: sono donne, politicamente attive e appartengono a minoranze etniche tra le più perseguitate. 

Molte di loro sono attualmente detenute nella prigione di Evin: Varishe Moradi è stata arrestata nel 2023,  Pakshan Azizi nell’agosto dello stesso anno, e Zeinab Jalalian è in carcere dal 2008. Tutte e tre sono state condannate alla pena capitale.

Le loro storie rivelano uno schema ricorrente tra le centinaia di donne incarcerate in Iran: vengono accusate di crimini gravi, come “diffusione di propaganda” o “ribellione contro lo Stato”, senza alcuna prova concreta, e senza l’accesso a difesa legale; spesso le confessioni vengono estorte tramite torture fisiche e psicologiche (2).

Queste donne sono diventate simboli della lotta per la libertà e per i diritti umani in un regime che cerca di annientare ogni forma di dissenso, in particolare quella femminile, che sfida le strutture patriarcali e autoritarie del potere. 

La libertà è un diritto universale e inalienabile, che dovrebbe appartenere a tuttə senza alcuna distinzione. Quando una donna – che sia migrante, povera, marginalizzata o costretta a vivere sotto regimi autoritari e violenti – viene privata dei suoi diritti fondamentali, non si tratta solo di un’ingiustizia individuale, ma di una ferita collettiva. La sua oppressione non riguarda solo lei, ma ha ripercussioni sulla libertà di ognunə.

La lotta per l’autodeterminazione della persona, ovunque nel mondo, è una battaglia per la liberazione di tuttə (3).

Nelle società in cui il patriarcato, il capitalismo e l’autoritarismo continuano a rafforzarsi, le lotte dellə attivistə femministə e transfemministə rappresentano non solo una resistenza, ma anche un rinnovato impegno nel costruire alternative più giuste e inclusive.

La strada da percorrere è lunga, ma ogni atto di disobbedienza, ogni voce che si solleva, ogni gesto di solidarietà contribuisce a costruire una realtà in cui la sorellanza non è solo un ideale, ma una pratica concreta e condivisa. 

(1) Comunicato di Non Una di Meno, 8 Marzo 2025, sciopero transfemminista contro violenza patriarcale, guerra e povertà:

https://nonunadimeno.wordpress.com/2025/02/17/8-marzo-2025-sciopero-transfemminista-contro-violenza-patriarcale-guerra-e-poverta/?fbclid=IwY2xjawI7oFNleHRuA2FlbQIxMAABHQHEqKlL3Vy8_dFP_BEBSyZfUL2R5-1TKzOEOvl16gwRZ51SPJXECCkHbA_aem_vxJdaUEGPdp6EyF1XyO3PQ

(2) Cfr. Ester Nemo,  Le donne curde a Evin pagano il prezzo più alto, Il Manifesto: https://ilmanifesto.it/le-donne-curde-a-evin-pagano-il-prezzo-piu-alto

(3) Cfr. La campagna di D.i.Re per i diritti di tutte le donne: 

https://www.direcontrolaviolenza.it/libere-tutte-la-campagna-di-d-i-re-per-i-diritti-di-tutte-le-donne/?fbclid=PAY2xjawI6tktleHRuA2FlbQIxMAABpnIhKPCSHDfDEKYnPmtVKLM9Q7CMfKhNTD5bPWbeHeOForyfpaMiTPqHcQ_aem_aRmzy0J8S1HALpdC5aJkgA