Itako. Sciamane e spiriti dei morti nel Giappone contemporaneo

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Nell’immaginario comune il Giappone è idealizzato come il “paese dell’armonia” (1), ossia come privo di conflitti sociali, un luogo etereo, distante e abitato da geishe e samurai, al tempo stesso predominato dall’iper-tecnologia, dalla velocità e dalla cultura dei manga e dell’anime.

Attraverso le parole di Marianna Zanetta, autrice di Itako. Sciamane e spiriti dei morti nel Giappone contemporaneo, viene scandagliata questa serie di stereotipi, accompagnandoci all’interno di un viaggio antropologico nel Giappone del nord-est, fatto di luoghi isolati, di ruralità e dell’oscurità dei boschi, affinché sia possibile toccare con mano e con la mente gli spiriti e i kami

Zanetta stila un vero e proprio dizionario di viaggio, accostando per tutto il suo cammino l’immagine della polaroid che via via si fa più nitida, sviluppando la fotografia di un Giappone inedito e costellato di figure sciamaniche e misteriose. 

Le nostre protagoniste sono Nakamura, Matsuda e Aoyama (2), donne accomunate dallo stesso destino: essere delle Itako.

Ma chi sono queste entità? Le Itako sono delle bambine nate cieche, portali per l’aldilà e istruite al dialogo con i defunti.

Nate all’interno di una realtà fatta di ruralità, di un passato di estrema povertà e di discriminazione circa la loro disabilità e, in particolar modo, sul ruolo della donna, accostato spesso e volentieri al termine Kegare (3), concetto traducibile con “impurità”. Un dualismo altamente sentito in Giappone, quello tra puro e impuro; la donna, d’altronde, è anch’essa manifestazione di impurità, è l’altro per antonomasia e minaccia alla diversità. Il suo corpo, in quanto differente rispetto a quello dell’uomo, è simbolo di errore, di eccezione e anomalia. 

Diventare una Itako per queste bambine era una vera propria necessità, affinché non fossero un peso per la famiglia e per lo Stato; un ruolo che, tuttavia, richiedeva un grosso compenso pecuniario da parte dei famigliari per la formazione delle proprie figlie nei riguardi delle altre Itako, che si apprestavano ad accogliere presso la propria dimora le novizie, conducendole al di fuori dallo stigma di inutilità e dipendenza – ichininmae (4). 

Le bambine dovevano essere istruite inoltre prima della maturità sessuale, in quanto le mestruazioni erano simbolo di impurità e si sosteneva che allontanassero gli spiriti kami, disgustati dalla diversità di questi corpi (5).

Un altro aspetto centrale all’interno di questo saggio è quello della finitudine dettata dalla morte, massima manifestazione del Kegare, nonché simulacro del caos, ma anche monito verso chi rimane. In questo contesto, le Itako divengono uno strumento per imparare a vivere assieme alla mancanza, una compagna scomoda ma comune a tutti, il cui peso viene alleviato dall’incontro con queste figure di mediazione. 

«L’attrazione per queste donne era partita dalla loro relazione con la morte. Ma se all’inizio la mia fascinazione ruotava intorno all’idea di potere e controllo sulla morte, intesa come capacità di avvicinarla senza pericolo e di guardare al di là, ora lo sguardo si spostava altrove. Sulla capacità di queste donne di offrire al dolore una nuova comprensione, un momento in cui non ci viene chiesto di andare avanti e guardare oltre, ma ci viene concesso di sedere con il nostro lutto, di ascoltare i nostri morti e incontrarli, una volta ancora.» (6)

Il concetto di morte giapponese differisce dal nostro, in quanto viene percepito come un vero e proprio processo trasformativo. Non c’è un rifiuto della morte o paura di questo evento, in quanto tuttə vi siamo destinati, pertanto occorre abbracciarlo e riconoscerlo come un vecchio amico, un contatto con una realtà differente, eppure dalla quale imparare molto e capace di mantenere saldo un legame con chi non c’è più.

«L’idea di una morte non istantanea ma come risultato di un lungo processo trasformativo, che richiede attività rituali e attenzioni non solo verso il corpo del defunto e la sua anima, ma anche verso la continuità della vita sociale. Per quanto quest’immagine possa apparirci un’immagine a noi estranea, nella realtà trova un parallelo anche nella biologia, per cui la morte non è più intesa come avvenimento subitaneo ma come una trasformazione prolungata nel tempo verso un punto di non ritorno. E questo punto, lungi dall’essere biologicamente determinato, è il risultato storico e culturale di una combinazione di elementi religiosi, filosofici, ma anche economici e politici; insomma, è determinato da ragioni etiche e pratiche più che da un inconfutabile dato biologico.» (7)

Oggi la pratica delle Itako è ridotta all’osso, un po’ perché le sciamane sono tutte invecchiate o morte, un po’ perché il progressivo welfare e miglioramento della sanità attraverso cure preventive hanno apportato la crescita di possibilità lavorative per queste bambine o di supporto per le donne non vedenti, senza contare la difficoltà di un ricambio generazionale.

Eppure la tradizione di queste affascinanti figure persiste nonostante tutto, regalando al Giappone una perpetua aura di misticismo e mistero, così lontana dalla nostra realtà.

Questo ci ricorda l’importanza e la perseveranza del ricordo, troppo spesso relegato al mero passato e circondato da un muro di dimenticanza e omissione. 

Grazie Mimesis Edizioni!

Marianna Zanetta, Itako. Sciamane e spiriti dei morti nel Giappone contemporaneo, Mimesis Edizioni, Milano-Udine, 2024.

(1) Marianna Zanetta, Itako. Sciamane e spiriti dei morti nel Giappone contemporaneo, Mimesis Edizioni, Milano-Udine, 2024, p.13.

(2) Questi sono i nomi delle Itako che l’autrice ha avuto modo di intervistare attraverso questo viaggio antropologico nel Giappone, assistendo inoltre ai loro contatti con l’aldilà. 

(3) Ivi, pp.21-22.

(4) Ivi, p.67. 

(5) Ivi, p.68.

(6) Ivi, pp.125-126.

(7) Ivi, pp.20-21.