Sviluppo tecnico-scientifico: due facce della stessa medaglia
Le guerre del Novecento hanno mostrato all’umanità la potenza distruttiva della tecnologia.
Pensiamo al dibattito sulla liceità delle armi chimiche a termine della Grande Guerra e alle questioni intorno all’utilizzo della bomba atomica durante la seconda guerra mondiale.
Possiamo dominare la tecnica che abbiamo creato?
È questa la questione che inizia ad attanagliare gli studiosi novecenteschi e che persiste ancora oggi.
È con Francesco Bacone che la scienza inizia a essere concepita come potere umano in grado di asservire la natura: la scienza è lo strumento per realizzare il regnum hominis.
Bacone mette in evidenza come le applicazioni della scienza siano necessarie a rendere l’uomo felice (1). L’uomo, grazie alla conoscenza della natura e delle sue leggi, risulta in grado di estendere indefinitamente il proprio potere sul mondo: sapere è potere (2).
Ma davvero l’uomo raggiunge la felicità solo se dominatore del mondo?
Lo sviluppo tecnico-scientifico non rischia di alienare l’umanità stessa?
Günther Anders in L’uomo è antiquato (1956), attaccando in particolar modo l’utilizzo della bomba atomica, parla di un “dislivello prometeico”, una distanza tra l’uomo e i suoi prodotti che, sempre nuovi e più potenti, lo oltrepassano facendolo cadere in uno stato di angoscia e soggezione, facendolo sentire “antiquato” e inadatto.
Hans Jonas in Il principio responsabilità (1979) elabora una nuova etica capace di render conto del fatto che l’esistenza stessa del mondo è messa in discussione dai nuovi sviluppi incontrollabili della tecnica, al punto che «stiamo segando il ramo su cui siamo seduti» (3).
È la storia che insegna. Da dominatore, l’uomo è diventato dominato; creando i suoi strumenti, infatti, ne è rimasto vittima.
Crolla il mito della neutralità della scienza: la scienza non è solo progresso, ma esibisce lati pericolosi.
La scienza, se non sottoposta a ordinamenti e regole morali, è in grado di distruggerci. Una distruzione che diventa attacco di massa tramite armi chimiche, selezione umana con tecniche di editing del genoma, ma anche indebolimento dell’autentica essenza dell’uomo.
Quest’ultimo risvolto è più sottile, direi quotidiano, e ha a che fare anche con il magico mondo del social web. I social network nascono con l’intento di mettere in contatto persone, utilizzando semplicemente una connessione Internet.
Socializzare, interagire, confrontarsi, trovare persone con stessi interessi e passioni, essere aggiornati: il social web diventa parte della nostra vita.
È questa dipendenza che costituisce un problema, perché rischia di disconnetterci dalla realtà e da noi stessi. Si profilano, così, diverse questioni psicologiche, sociali e relazionali.
Lo schermo filtra e, in primis, filtra il nostro essere: in questa operazione di mediazione rischiamo di perderci. È facile parlare dietro a uno schermo, presentarsi ai followers pubblicando una serie di foto perfette.
Facebook e Instagram diventano vere e proprie vetrine di noi stessi, ma ci mostriamo per quello che siamo davvero o per quello che gli altri vogliono?
Possibile perdita a livello di identità personale, ma anche di intercomunicazione. Il mondo social ha intaccato la nostra capacità di comunicare con l’altro: succede spesso che quando si esce con amici si presti più attenzione ai nuovi post che alle loro voci. Rimanere connessi, sempre. Non solo.
I maggiori limiti del linguaggio on-line risiedono nella mancanza di codici di comunicazione gestuale e nell’assenza di uno spazio fisico condiviso: fattori che impoveriscono l’interazione umana. Non bastano delle emoticon e delle videochiamate per sopperire a queste mancanze.
La comunicazione umana, infatti, è costituita principalmente da una componente non verbale, che ha a che fare con elementi paralinguistici (tono, intensità, tempo della voce), con il sistema cinesico (gesti, espressioni della muscolatura del viso), con il sistema prossemico (spazio interpersonale).
Le parole sono importanti sì, ma talvolta passano in secondo piano. Emozioni, stati d’animo, modi di essere si trasmettono in modo più autentico semplicemente guardando l’interlocutore.
Non si conosce davvero una persona chattando.
Non è difficile, infatti, mentire digitando qualche parola, né descriversi in un certo modo, quando non si ha riscontro immediato e diretto dall’altra parte.
Allora, un mondo che ci confina alla comunicazione on-line, che ci abitua a interagire mediante uno schermo rischia di trasformarci in protagonisti di un videogioco, personaggi tutti uguali, distinti solo da qualche dettaglio prefigurato, dove è più importante apparire che essere se stessi, omologarsi per non restare soli.
Ancora, personaggi invincibili, che si sentono forti con la tastiera, la loro arma, capaci di pronunciarsi in qualunque modo, incuranti di ciò che quelle parole possono provocare, incuranti che quelle parole arrivino come proiettili ad un altro essere umano: sono i cosiddetti “leoni da tastiera”.
Il social web diventa un volano di violenza e odio, uno strumento per sfogare i propri malesseri, la propria frustrazione, i propri fallimenti. Lo schermo ha il potere di farci dimenticare il nostro interlocutore: non insultiamo il soggetto, ma lo schermo stesso.
Lo schermo è produttore di disempatia, di lontananza.
Presa distanza, non vedo l’altro negli occhi, non percepisco la sua paura, il suo turbamento e sono pronto a tutto: è come se i miei freni inibitori si allentassero gradualmente ed io sia portato a dire cose che non avrei mai detto altrimenti.
È il potere della tecnologia: connessi, ma fortemente vulnerabili.
La tecnologia, insomma, nasconde un volto inquietante che va di pari passo con il progresso.
Se pensiamo agli sviluppi raggiunti in campo medico, tutti noi saremo d’accordo nell’ammettere la nostra gratitudine nei confronti della ricerca, la quale, ogni giorno, si impegna per migliorare la vita.
Oppure, se pensiamo all’invenzione di Internet, non possiamo non affermare la comodità e l’efficienza della nuova rete ma, dall’altra parte, la tecnologia è un mostro umano che può attaccarci alle spalle, se non domato in modo corretto. Essa penetra dentro: arricchisce, ma svilisce allo stesso tempo.
L’uomo tecnologico è sempre informato sulle notizie del mondo, è pronto ad organizzare un viaggio con un click, ordinare una pizza con un click, farsi passare la noia navigando su tanti siti ma, delegando tutto alla sua fedele compagna, perde l’abitudine a conoscere persone senza filtri e sovrastrutture, ascoltare davvero l’altro, rapportarsi al mondo senza necessità di una mediazione, studiare e acculturarsi utilizzando un buon libro, essere se stesso.
Siamo noi i responsabili delle conseguenze della scienza, siamo noi a doverla regolamentare, in tutte le applicazioni, con norme morali e abituare i ragazzi all’uso corretto dello strumento.
Non si tratta di un atteggiamento conservatore, piuttosto progressista prudente.
L’uomo tecnologico è un uomo diverso da tanti anni fa: un uomo che oggi deve assumersi una nuova responsabilità: prendersi cura dell’umanità, preservandola da quelle armi da lui stesso create.
(1) In Nuova Atlantide Bacone descrive un’isola immaginaria in cui gli uomini vivono felici grazie agli strumenti tecnologici che il sapere scientifico mette a disposizione. Ribaltando la concezione classica della scienza, l’autore crede che l’aspetto conoscitivo sia solo un momento preparatorio all’applicazione pratica, capace di condurre l’uomo al dominio felice della natura.
(2) Cfr. Francesco Bacone, Cogitata et visa, in Scritti filosofici, a cura di P.Rossi, UTET, Torino, 1975, pp. 389- 391.
(3) Hans Jonas, Dalla fede antica all’uomo tecnologico. Saggi filosofici, Il Mulino, Bologna, 2001.
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