La body positivity è un movimento sociale radicato nella credenza che tutti gli esseri umani devono avere un’immagine del proprio corpo positiva, sfidando le diverse modalità in cui la società rappresenta la fisicità. Centro focale di tale movimento è l’accettazione di tutti i corpi, a prescindere dalla forma o dall’apparenza, impostando come fine l’abolizione di standard di bellezza irrealistici e finti e la costruzione della self-confidence, ossia dello stare bene e a proprio agio con il proprio fisico e la propria corporeità (1).
Se il movimento body positivity moderno è emerso grazie all’accettazione del grasso alla fine degli anni ’60 (attraverso il fat acceptance movement), ora si sta espandendo sempre più, includendo tutti i corpi esistenti e le diverse soggettività, ponendo l’accento su come determinati corpi siano più stigmatizzati di altri.
Eppure, molti attivisti con disabilità hanno fatto emergere come il corpo disabile non sia ancora incluso o considerato come gli altri all’interno del movimento della body positivity (2).
Nei media, le persone disabili sono abitualmente infantilizzate, asessualizzate, proposte come oggetto di pietà o di ispirazione, e le loro vite presentate come una tragedia, accettate solo attraverso la compassione. Allo stesso modo, molti movimenti body positive non forniscono spazi inclusivi dove le persone disabili possano vedere se stesse rappresentate in modo accurato e realistico.
Il corpo delle persone con disabilità è da sempre oggetto di normativizzazione dalla classe medica: è visto come malato, sbagliato, deviante dalla regola e inserito in un contesto di patologia che deve essere sanata, per farlo tornare in una dimensione uniformata e dunque accettabile.
È in quest’ottica che si è sempre mosso il modello medico-individualista della disabilità, vista come una condizione fuorviante e malata, cui bisognava porre rimedio a tutti i costi, o altrimenti rinchiudere in qualche istituto: persone i cui corpi deformi,ossia fuori dalla forma, venivano nascosti dallo sguardo della società, e trattati con vergogna, nel caso non si riuscisse a omologarli. Non si badava all’esigenza della persona e alle sue personali capacità, la normalizzazione era la regola imperante per poter essere accettati.
L’anatomia fisica (ma anche il modus operandi intellettivo-cognitivo) considerata deviata doveva essere standarizzata il più possibile.
Il modello motivazionale/pietistico della disabilità (Inspiration/Pity model of disability) ,ancora orribilmente presente nella cultura moderna, vede le persone con disabilità come una fonte di motivazione e ispirazione per le persone non disabili, oppure come degli individui sfortunati oggetti di pietà: entrambe le visioni sono interconnesse e strettamente legate, in quanto derivano dall’idea che vi sia un’ineguaglianza intrinseca tra le persone con disabilità e quelle senza disabilità.
I mass media e la società presentano la vita delle persone con disabilità come una tragedia drammatica, cui la persona deve riscattarsi sconfiggendo la sua disabilità come un eroe, o rimanerne vittima per sempre. Fautore di questo stigma è stato il modello medico, che concepisce la disabilità come una malattia, la quale deve essere vinta o curata, e per questo incoraggia l’idea che le persone con disabilità siano sofferenti, suggerendo implicitamente l’idea che gli altri individui debbano considerarsi felici a non essere “sfortunati” come le persone con disabilità.
Questo ha portato ancora di più a ingigantire lo stigma sul corpo delle persone con disabilità, viste come malate, spezzate, brutte, indesiderabili sessualmente e non attraenti.
I corpi disabili non vogliono essere visti, fanno paura, rimandano a un’idea di sofferenza e disgusto.
Vedere la disabilità come negativa ha fatto sì che le stesse persone si sentissero sbagliate nei loro corpi, li nascondessero, negando la loro fisicità in un’esaltazione estrema dell’importanza dell’essere “belli dentro”, interiorizzando il body shaming, la vergogna verso il loro corpo e l’oppressione fisica perpetrata dalla società abilista. Quante volte abbiamo sentito parlare di uomini e donne con disabilità, esaltando la loro presunta forza interiore senza mai dire una parola sulla bellezza del loro fisico, sul loro essere sensuali.
Il modello sociale della disabilità, iniziato a diffondersi negli anni ’60 e che distingue tra impairment (l’oggettiva menomazione fisica, sensoriale o cognitiva) e disability (ossia il fattore disabilitante che emerge qualora la società non è in grado di comprendere e facilitare le caratteristiche di tutti i cittadini che ne fanno parte), ha fatto sì che le persone con disabilità iniziassero a comprendere di non avere alcun svantaggio intrinseco, a pretendere i loro diritti, tra cui innanzitutto di essere persone a 360 gradi, il diritto di non dover essere normalizzati per essere accettati e quello di avere un ambiente che trasformi il loro valore da potenziale a effettivo.
Il problema non è più nella persona che si discosta dalla regola, ma è la società che è mancante e handicappata in quanto non fornisce le risorse adeguate a tutti i suoi cittadini.
Inizia allora a diffondersi una nuova consapevolezza, quella di essere portatori di corpi validi e degni di valore, non stigmatizzati dal modello medico ma vivi e pieni di dignità. Corpi visibili che vogliono e devono essere visti. Tantissimi attivisti sono scesi in piazza pretendendo il diritto all’esistenza e il diritto alla libertà di non essere normativati dentro la società, diritto che prima era sempre stato negato.
Nonostante le continue discriminazioni cui è sottoposto dalla moda e dalla società, negli ultimi decenni il corpo disabile ha avuto un grande riscatto grazie alle Paralimpiadi.
Atleti con qualsiasi tipo di disabilità hanno dimostrato che un corpo disabile è un corpo sano, forte, potente e sessualmente desiderabile (basti pensare a Oscar Pistorius (3) che è stato incoronato nel 2012 dalla rivista People l’ottavo uomo più sexy della terra, o alla modella ed atleta Aimee Mullins che ha partecipato alle sfilate di Alexander McQueen (4), o più recentemente Chiara Bordi alla finale di Miss Italia). Moltissime sono state le sfilate di donne in carrozzina che hanno dimostrato come la sedia a rotelle sia semplicemente un accessorio.
Eppure vi è ancora un passo avanti da fare. Parliamo di corpi che sono facilmente accettabili dalla società in quanto atletici e competitivi, perfettamente incastonati dell’ideale sociale di mascolinità o di femminilità. Sono corpi perfetti e armonici, la protesi non è che un accessorio, e le modelle delle sfilate in carrozzina sembrano appoggiate, sedute per caso sulla sedia a rotelle.
Si sceglie ancora di mostrare un corpo incasellabile negli stereotipi di bellezza (magro, atletico, sano).
Se il corpo disabile è riposizionabile in tali standard è ben accetto dai mass media, in caso contrario sarà nuovamente oggetto di pietismo, infantilizzazione e desessualizzazione. Ben che vada, si sceglierà di considerare solo certe parti del corpo, evitando di considerare le altre (frasi come “ sei carin* di faccia”, “l’importante è come sei dentro”, “ saresti davvero bell* se camminassi/non avessi le protesi/le stampelle”, “ sei molto bella dal busto in su” sono tutte microaggressioni abiliste che vanno a ledere l’identità e l’autostima della persona).
Non tutte le persone con disabilità sono atleti, non tutti hanno un corpo che rispecchia gli standard di bellezza odierni. Spesso determinate condizioni portano a diversità fisiche evidenti, come atrofizzazione dei muscoli, scoliosi, strabismo, modi diversi di spostarsi e di parlare, spasmi, giusto per elencarne qualcuno. A volte (ma ripeto, non sempre) alla disabilità è associata una malattia degenerativa o il dolore cronico, e questo rende più difficile l’accettazione del corpo.
Ma non siamo solo anima o cervello, siamo carne e sangue che sente, freme, ribolle di vita e vuole essere vista, oltre che vissuta. Negare il nostro corpo, vergognarci di questo solo perché non gode di una rappresentazione adeguata da parte dei mass media significa negare una larghissima parte del nostro essere, significa negarci i piaceri che il materialismo più dionisiaco può offrirci.
Significa vivere la nostra vita a metà.
L’idea che permea la body positivity è che ogni singola corporeità ha un valore intrinseco e deve essere celebrata in quanto tale, e che non solo la persona stessa deve accettarsi, ma tutta la società deve farlo, smettendola di pretendere che vi sia un solo standard di fisicità e che tutti debbano farne parte.
La body positivity per essere davvero completa deve includere i corpi delle persone con disabilità, riscattando quell’essere carnali e sessuali che è sempre stato negato a chi usciva da determinati canoni precostruiti.
Riscattate il vostro corpo, amatelo, pretendete il vostro essere sexy, uscite allo scoperto, fatevi vedere. Sputate sul pietismo e su chi vuole reificarvi come oggetto di ispirazione per il suo tornaconto di autostima.
Siate orgogliosi di ciò che siete. Siate orgogliosi di essere disabili.
(1) Cwynar-Horta, Jessica (August 2016). “Documenting femininity: body positivity and female empowerment on Instagram” https://yorkspace.library.yorku.ca/xmlui/bitstream/handle/10315/32785/Cwynar-Horta_Jessica_C_2016_MA.pdf?sequence=2&isAllowed=y
(2) https://www.theodysseyonline.com/where-are-disabled-people-your-body-positivity-campaign
(4) https://fashionista.com/2018/02/aimee-mullins-fashion-disability-fit-symposium
L’immagine di copertina ci è gentilmente concessa da Kam Redlawsk’s Art / pic credits: thanks to Kam Redlawsk’s Art Facebook – Instagram
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