«Io penso effettivamente con la penna, perché la mia testa spesso non sa nulla di ciò che la mia mano scrive» (1). Con queste parole Ludwig Wittgenstein descrive il suo rapporto con la scrittura.
Ma, quando il filosofo austriaco scrisse ciò era il 1931.
Non aveva Whatsapp, Facebook, la posta elettronica e tutti i mezzi rapidi che possediamo noi e che ci permettono di comunicare freneticamente ogni minuscolo pensiero.
Perché di base, ciò che oggi si tende a scrivere sono proprio piccoli pensieri, messaggi, frasi corte, che in un modo o nell’altro cercano sempre il contatto immediato con l’esterno per esprimere la propria sfera emotiva, per cercare il sé, si ricorre automaticamente all’altro. Poco importa che il destinatario delle nostre emozioni sia reale o virtuale, l’importante è che ci sia un riscontro alle nostre parole, un qualcuno che ci veda e che ci ascolti, anche solo apparentemente, e che in sostanza ci riconosca.
Anche un testo di un blog o un post su Facebook, per quanto condivisi con estranei invisibili (e quindi con identità virtuali), hanno un destinatario e, non solo si ha febbrilmente bisogno dell’altro, ma si ha anche spesso bisogno che il contenuto venga comunicato nell’immediato e che la risposta (il riconoscimento) avvenga nella maniera più rapida possibile.
Pensando a ciò e rileggendo la frase di Wittgenstein, quando apro il mio taccuino dell’anno corrente, mi domando sempre più spesso se abbia ancora senso nel 2019 compiere un atto come quello della scrittura personale, in cui i propri pensieri rimangono propri, in cui l’altro sono io.
Ma è davvero così? Una volta compiuta l’azione di scrivere i miei pensieri, essi sono ancora in tutto e per tutto miei?
Pensiamo alle narrazioni letterarie e a quando capita di “rivedersi” in un personaggio o nell’autore stesso: trattasi di una sorta di riconoscimento interpersonale che copre sì la sfera emotiva, ma anche il nostro background di convinzioni morali e il contorno socio-culturale di provenienza. Io mi vedo in una data situazione o personaggio perché lo comprendo, perché è sì qualcosa di altro da me, ma in cui io rivedo qualcosa che posso riconoscere. Inoltre, immedesimandomi con i personaggi posso capire come appaiono le cose ad un altro: posso scoprire come qualcuno può sentirsi vedendo le cose in modo diverso da me o anche solo agendo diversamente.
Si tratta di ciò che il filosofo americano Ted Cohen definisce “metafora d’identificazione personale”, che nasce dal nostro bisogno di comprendere gli altri. Per Cohen, questo tipo di identificazione è il grande potere delle arti, che siano narrative o meno e, aggiunge, che l’apprezzamento di un personaggio o di una situazione deriva proprio dalla comprensione.
Prendendosi dunque un spazio per la scrittura personale, per parlare di sé con sé, non si diventa una sorta di personaggio?
Dopotutto, una volta scritti i miei pensieri questi non sono più raccolti solo in me, ma li vedo nero su bianco, sono ormai all’esterno.
Filosofi come Agostino, Montaigne, Descartes, Rousseau ed Emerson sono alcuni degli autori che hanno fatto del proprio sé il loro oggetto di studio e vedono la scrittura come un percorso verso lo svelamento proprio di quel sé. Più recentemente, e profondamente influenzato dalla lettura di Wittgenstein, il filosofo del linguaggio Stanley Cavell ha proposto la scrittura autobiografica come un vero e proprio percorso di formazione (Bildung), in cui il soggetto, nel momento in cui scrive, sta sia producendo del testo scritto che producendo se stesso. L’atto di scrivere diventa un “farsi” del soggetto in una dimensione senza confini.
Una volta scritte le proprie emozioni e descritte le situazioni, si rimane orfani di ciò che ormai è diventato altro. Altro che rimane lì, disponibile, per essere riletto e reinterpretato, altro in cui i personaggi siamo noi ma allo stesso tempo qualcosa di esterno che si può rivivere.
A scapito di rapidi messaggi Whatsapp, note vocali, post su social, a scapito della frenesia della risposta e dell’opinione altrui, ecco perché nel 2019 può ancora avere senso prendersi il proprio spazio personale per raccontarsi, per scrivere di sé, per diventare i personaggi principali nell’esclusiva ricerca della propria individualità.
(1) Wittgenstein Ludwig, Pensieri diversi, 1931, Adelphi, Milano, 1980.
FONTI:
Cohen Ted, Identifying with Metaphor: Metaphor of Personal Identification, in The Journal of Aesthetics and Art Criticism, vol. 57, num. 4, Wiley, 1999.Giosi Marco, Stanley Cavell: un percorso «dall’epistemologia al romanzo». L’orizzonte pedagogico, Firenze University Press, Firenze 2008.
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