A qualche settimana dall’inizio della 76esima Mostra del Cinema di Venezia, una buona notizia: il numero di film in concorso diretti da donne è, in un anno, raddoppiato.
Buona notizia, sì, peccato che dei 21 film candidati l’anno scorso al Leone d’Oro, solo uno avesse regia femminile.
I numeri di Venezia non sorprendono: nonostante alcuni festival, come il Sundance e la Berlinale, vantino percentuali di partecipazione femminile più alte (1), la Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica si colloca sulla scia, non priva di polemiche, di Cannes e degli Oscar.
Il mondo del cinema, per quanto riguarda la disparità di genere, negli ultimi anni si è scoperto essere un mare magnum di questioni che, anche grazie alla spinta propulsiva impressa dal #MeToo, sono entrate a gamba tesa nel dibattito mediatico. Tra queste, l’annoso problema della rappresentazione.
Perché le donne, nel cinema, sono sotto-rappresentate o male rappresentate? E perché, soprattutto, è così difficile dare conto di questa mala-rappresentazione e estirparla una volta per tutte?
La Feminist Film Theory, nata tra USA e UK negli anni Settanta (2) del secolo scorso, ci mostra come questo tema, attualissimo, sia in realtà oggetto di ricerca da ormai quasi cinquant’anni. Nel 1975, infatti, esce su Screen il pioneristico Visual Pleasure and Narrative Cinema di Laura Mulvey, un articolo dall’intento esplicitamente politico che mira a decostruire il discorso cinematografico, così da svelarne la sottesa ideologia patriarcale.
«Si dice che analizzare il piacere o la bellezza, li distrugge. È quanto si prefigge questo articolo.»(3)
Posto che ogni immagine visibile viene in qualche modo manipolata, indagare i meccanismi di manipolazione è fondamentale per scoprire se questi sono o non sono oppressivi e Mulvey, attraverso l’analisi di alcuni film di Hitchcock e Sternberg, individua un’importante disparità nell’applicazione di concetti come visione e piacere all’interno del medium cinematografico.
L’uomo è colui che guarda, “the bearer of the look”, la parte attiva; la donna, invece, è colei che viene guardata, il feticcio, la parte passiva — di lei si predica la “to-be-looked-at-ness”.
Questo accade in un medium che rappresenta alla perfezione il piacere voyeuristico: nel buio della sala cinematografica lo spettatore prova piacere nel guardare un mondo privato, a cui non può avvicinarsi, ma che, allo stesso tempo, lo rappresenta:
«[…] ll cinema soddisfa una voglia primordiale di guardare con piacere, ma va anche oltre, sviluppando la scopofilia nel suo aspetto narcisistico. […] la curiosità e la voglia di guardare si mescolano con una fascinazione della somiglianza e del riconoscimento […]»(4)
Lo spettatore prova piacere nel distacco e allo stesso tempo rinforza il suo ego nell’identificazione. Date queste premesse, che spazio è concesso alla spettatrice? Che tipo di riconoscimento può trovare di fronte a un prodotto culturale che la mette di fronte a se stessa, ma solo come parte passiva?
Mulvey introduce un’espressione che avrà grande fortuna all’interno dei gender studies: il male gaze, lo sguardo maschile.
Costretta a guardare il mondo attraverso le lenti del male gaze, può una donna costruirsi un’identità autonoma e libera dai pregiudizi?
Nel 1985, i personaggi femminili di un fumetto di Alison Bechdel discutono tra loro di film. Una dice all’altra che non andrà al cinema salvo che: nel racconto siano presenti almeno due donne e abbiano un nome; le due donne parlino almeno una volta tra di loro; le due donne parlino di qualcosa che non sia un uomo(5).
La conversazione diventa il paradigma per valutare la rappresentazione femminile minima nei prodotti narrativi, il cosiddetto Bechdel test. Dieci anni dopo Visual Pleasure and Narrative Cinema, il problema della rappresentazione è ancora presente.
Certo, dieci anni non sono molti. Ma cinquanta?
È scoraggiante pensare che l’articolo di Laura Mulvey e con esso altri, quali Women’s Cinema as Counter Cinema di Claire Johnston (1975) o Alice doesn’t di Teresa de Lauretis (1984), siano ad oggi ancora così attuali. Viene da chiedersi se il male gaze non sia così pervasivo da plasmare in modo profondo e, chissà, irreversibile il nostro gusto e la nostra sensibilità. Forse l’ondata di sdegno degli ultimi anni e la sua risonanza mediatica cambieranno le cose.
Di fronte a questo scenario, la mia risposta è l’iniziativa: costringiamoci a guardare con occhi altri — con occhi femminili, queer, con gli occhi delle minoranze e dei gruppi sotto-rappresentati. In generale, con occhi sospettosi.
Mulvey stessa ha dichiarato in un’intervista:
«Il mio cambio, come spettatrice, è stato repentino e deve molto all’influenza del femminismo. Improvvisamente, guardavo film che amavo e che mi avevano commosso con occhi diversi. Invece di essere assorbita nello schermo, nella storia, nella messa in scena, nel cinema — ero irritata. E invece di essere uno spettatore voyeuristico, per così dire uno spettatore maschio, sono diventata una spettatrice donna, capace di guardare da lontano e in modo critico, piuttosto che con occhi assorti.» (6)
Anche guardare un film può essere un atto fortemente politico.
(1) Brent Lang, Cannes Grows More Inclusive, Boosts Number of Female Filmmakers. https://variety.com/2019/film/news/cannes-more-inclusive-female-filmmakers-official-selection-1203192348/
(2) Maria Nadotti, Feminist Film Theory – Enciclopedia del Cinema. http://www.treccani.it/enciclopedia/feminist-film-theory_%28Enciclopedia-del-Cinema%29/
(3) Laura Mulvey, Visual Pleasure and Narrative Cinema, Screen, 1973, 6 – 18.
(4) Ibidem
(5) Alison Bechdel, Dykes to Watch Out For, Firebrand Books, Ithaca, N.Y.,1986.
(6) Another Gaze, Suddenly, a Woman Spectator: An Interview with Laura Mulvey.
(7) http://www.anothergaze.com/suddenly-woman-spectator-conversation-interview-feminism-laura-mulvey/ (mia traduzione)
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