Violenza strutturale, sofferenza e disuguaglianze: l’attualità delle idee di Paul Farmer
L’antropologia medica (detta anche antropologia del corpo e della malattia) è una disciplina molto recente.
Nata con l’esigenza di mettere in luce anche gli aspetti politici, sociali ed economici della malattia, non vuole opporsi al medicina e alla biologia, ma vuole solo completarle.
Uno degli esponenti più noti, anche per l’impegno concreto sul campo, è Paul Farmer, medico statunitense che ha coniato un concetto fondamentale: quello di violenza strutturale.
Basandosi su due casi apparentemente molto diversi tra loro, Farmer ha messo in luce gli effetti prodotti da ordinamenti sociali caratterizzati da profonde disuguaglianze. Entrambi riguardano un contesto a noi lontano, Haiti, dove il medico ha a lungo lavorato, entrando in contatto con i terribili effetti dell’HIV e una povertà inimmaginabile causata da una lunga serie di regimi dittatoriali[1].
In questo contesto prende forma la struggente storia di Acéphie, una giovane donna proveniente da una famiglia poverissima, la cui casa viene sommersa dall’acqua, portando via i loro fertili campi vicini, unica fonte di guadagno. All’età di diciannove anni (Acéphie, però, è ancora alle elementari), inizia ad aiutare la madre a portare alcuni prodotti al mercato locale. La grande bellezza della ragazza, dice Farmer, e la sua vulnerabilità potrebbero essere le cause del suo triste destino che culmina con la sua morte nel 1984[2]. Infatti, al mercato sono spesso presenti soldati che ammirano le donne, le quali spesso ricambiano le attenzioni a causa dell’estrema povertà e della speranza in un’ascesa sociale che essi rappresentano. In queste circostanze, Acéphie inizia una relazione con il capitano Honorat, sposato, con figli e molte altre amanti, che viene presto troncata. Nonostante la brevità del rapporto, gli effetti, purtroppo, saranno devastanti. Qualche tempo dopo, Acéphie viene a conoscenza della morte dell’ex partner. Nel frattempo, la ragazza trova un lavoro come cameriera presso un’ambasciatrice, si sposa con un giovane di umili origini come lei e rimane incinta. Dopo la nascita della figlia, Acéphie è logorata da numerose infezioni, finché non le viene diagnosticato l’AIDS. Visto che la violenza politica impedisce ai suoi medici di tenere aperta la clinica, dice Farmer, la ragazza si trova ogni giorno di fronte alla diarrea e a una persistente debolezza[3]. Muore, magrissima, senza che la famiglia possa fare nulla di concreto per aiutarla. Anche la moglie di Honorat diventa ogni anno più magra, così come due suoi figli e almeno altre due partner occasionali del capitano.
L’altra vicenda narrata da Farmer, ugualmente triste, riguarda un altro giovane, Chouchou. Il contesto politico è estremamente complicato: il violento regime dei Duvaliers viene finalmente sostituito dalla democrazia del candidato Aristide, appoggiato dai poveri. Con l’indignazione dei contadini, un colpo di stato segna il ritorno di un regime repressivo ed è proprio a causa di esso che Chouchou farà la stessa fine di Acéphie. A qualche mese dal colpo di stato, il giovane si trova su un camion che lo porta in città, assieme a due compagni di viaggio e fa una pwen, ossia un’osservazione pungente che vuole dire qualcosa di diverso dal suo significato letterale. Guardando le pessime condizioni della strada, egli dice: «se le cose fossero come dovrebbero essere, queste strade sarebbero già state riparate». Sfortuna vuole che uno dei compagni di viaggio fosse un soldato in borghese e che la frase, secondo lui, deplorasse velatamente il colpo di stato. Al successivo checkpoint, Chouchou viene brutalmente picchiato, entrando in una sorta di lista nera. Qualche tempo dopo, mentre fa visita alla sorella, viene arrestato, condotto in caserma, torturato e lasciato morire in un fosso con costole rotte, genitali mutilati e muscoli scoperti a causa della pelle scuoiata.
Le conclusioni a cui Farmer arriva, prendendo esempio dalle strazianti storie di queste due persone, è che AIDS e violenza, in un contesto pieno di disuguaglianze come Haiti, sono le cause primarie di morte fra i giovani[4]. Queste afflizioni non sono dovute al caso, ma sono la conseguenza dell’azione umana. Entrambi, per l’appunto, sono vittime della già citata violenza strutturale. Nei paesi benestanti tendiamo ad ignorare questi meccanismi, poiché sono a noi lontani e per questo pensiamo che non ci riguardino. Oggi, però, nell’epoca della globalizzazione e dell’immigrazione, ci possiamo rendere conto quanto sia sbagliato questo ragionamento.
La violenza, inoltre, è determinata da diversi fattori sociali, quelli che Farmer chiama assi, i quali espongono maggiormente certi gruppi rispetto ad altri. Prima di tutto, c’è l’asse del genere: inutile far finta di nulla, continua Farmer, in tutto il mondo le donne si confrontano con il problema del sessismo e sono poste, a causa di questa ideologia, al di sotto degli uomini. Le donne sono sottoposte, ovunque, a violenza domestica e stupro, ma spesso in alcune società, tali crimini rimangono invisibili. Ancora più critica è la situazione qualora le donne appartengano a paesi poveri perché, in questi casi, gli svantaggi riguardano anche campi fondamentali come l’assistenza sanitaria, l’alimentazione e l’educazione di base [5].
L’altro asse più esposto a violenza e malattia è quello della razza o dell’etnicità. Infatti, la presenza di gruppi minoritari va di pari passo con razzismo, disuguaglianze e fenomeni di apartheid: infatti in queste comunità più piccole il tasso di mortalità è più alto anche nei paesi più ricchi e “civilizzati”.
Ci sono, però, anche altri assi di oppressione riguardanti lo status del profugo e l’omosessualità. Relativamente a quest’ultima, durante l’epidemia di AIDS degli anni Ottanta è emersa più che mai la relazione tra omofobia e modelli di mortalità. Nei paesi più sviluppati, i gay dei ceti medi sono riusciti a informare e ad opporre resistenza alla diffusione dell’AIDS, ma diversa è la situazione nei paesi poveri e tra i ceti più bassi (basti pensare ai fenomeni di prostituzione tra uomini).
Per quanto riguarda lo status di profugo, abbiamo esempi ogni giorno di immigrati a cui non sono nemmeno riconosciuti i diritti fondamentali, costretti a vivere (e a morire) in condizioni igienico-sanitarie terribili.
Farmer conclude, quindi, che la malattia e la morte prematura sono la causa principale di sofferenza estrema nel mondo e l’Organizzazione Mondiale della Sanità collega esplicitamente tutto ciò alla povertà[6]. Sono proprio i poveri del mondo ad essere vittime elette della violenza strutturale e Paul Farmer, indossando i panni dell’attivista, sostiene che «il compito imminente, se si vuole rompere questo silenzio, è quello di identificare le forze che cospirano nel promuovere la sofferenza»[7], andando così a «individuare le cause della sofferenza estrema»[8].
Il medico e antropologo, insomma, ha sottolineato, in un’epoca in cui il mondo sembra essere spaccato in due tra chi ha troppo e chi ha troppo poco, quanto le afflizioni non siano casuali, ma siano proprio il frutto di queste profonde disuguaglianze.
In un paese come il nostro, in cui la crisi e la povertà hanno portato ad accanirsi con gli ancora più poveri e gli ancora più deboli, provenienti da paesi in cui i diritti umani vengono costantemente violati e calpestati, in un’Italia in cui le donne muoiono ogni giorno per mano di mariti o ex, le riflessioni di Farmer risultano essere estremamente attuali e calzanti, anche dieci anni dopo la loro formulazione.
NOTE
[1] Cfr. Quaranta I., Antropologia medica. I testi fondamentali, Raffaello Cortina Editore, Milano 2006.
[2] Cfr. ivi, pp. 271-2. [3] Cfr. ivi, pp. 273-4.[4] Cfr. ivi, p. 280.
[5] Cfr. ivi, pp. 285-6. [6] Cfr. ivi, pp. 296. [7] Cfr. ivi, pp. 297. [8] Ibidem.La crisi della nostra identità nelle separazioni
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