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La riflessione proposta da Cossutta è la seguente: se gli ormoni, che dovrebbero raccontarci una verità sul sesso delle persone, vengono utilizzati – per esempio nel caso del testosterone – per rendere più virili gli uomini, allora bisogna fare attenzione a parlare della naturalità di un corpo, perché questa naturalità è in realtà costruita, ed è costruita da quelle stesse tecniche che dichiarano di studiarla.
La biologia, mentre studia la natura umana, la costruisce. Costruire l’idea di natura significa stabilire la norma (per esempio decidere con quale dose di ormoni sei uomo e con quanti sei donna), indipendentemente dalle variazioni che appaiono, per l’appunto, “in natura”.
Anche Simone de Beauvoir parla del rapporto tra biologia e corpi, sottolineando quanto le donne siano schiave della specie e quanto questo ponga in atto un paradosso: tanto più l’essere umano si dichiara lontano dalla dimensione naturale, intendendo così la dimensione più selvaggia e animale, tanto più i corpi delle donne sono sottoposti alle necessità della specie, molto più che dei corpi degli animali liberi.
De Beauvoir dice questo in un duplice senso.
Il primo senso in cui si deve intendere questa affermazione è che le donne, al contrario delle femmine della maggior parte degli animali non umani, hanno le mestruazioni una volta al mese, portano avanti una lunghissima gravidanza e partoriscono neonati completamente insufficienti. Ma questo essere schiave della specie si deve intendere anche in un secondo senso: i corpi delle donne vengono essenzializzati per poi costruire, sulla base dei dati biologici, una verità su di loro. Una verità che però ancora una volta è costruita.
Questo lo mostra molto bene Carla Lonzi quando ci parla di donna clitoridea e donna vaginale.
Da Freud in poi emerge la necessità di produrre delle sessualità che siano compatibili con la società, il che deve avvenire attraverso l’educazione.
Se però la sessualità maschile adulta viene descritta come una ripresa della sessualità infantile (le modalità e l’organo di piacere sono le stesse, cambia solo l’oggetto), per le donne la questione è più complessa: esse non devono rinunciare solamente all’autoerotismo e all’amore all’interno della famiglia, ma anche alla sessualità clitoridea in favore di vaginale.
È questa una delle più grandi contraddizioni di Freud dal momento che, pur descrivendolo come il normale passaggio dalla sessualità femminile infantile a quella adulta, non manca di affermare che è questo il principale motivo dell’isteria femminile.
Carla Lonzi parte da qui per dirci che il modello della donna vaginale è stato creato dalla cultura patriarcale attraverso la costruzione di una “naturalità” del corpo e del piacere femminile che passa per la vagina e la procreazione; essa nasconde però un’altra “natura” che, al contrario, indica la clitoride come organo femminile del piacere. Da questo spostamento, Carla Lonzi fa derivare la necessità di ripensare tutta la sessualità ma anche tutta l’organizzazione della società. Questo modo di vedere le cose, infatti, cambia anche chi noi consideriamo una donna: Lonzi propone dunque di considerare tale non chi partorisce, ma chi prova piacere nella clitoride.
Questo passaggio è importante perché si vede come cambiando il modo in cui vediamo e consideriamo i corpi, possiamo anche cambiare gli sguardi sulla politica.
Questi discorsi ci portano in due direzioni diverse. La prima è una riflessione di Angela Putino che, osservando il femminismo a partire dall’analisi della biopolitica, ci avverte del rischio di complicità tra alcuni modi di pensare il soggetto donna del femminismo e la biopolitica.
Questo si può vedere, per esempio, nell’attenzione posta dal Femminismo della Differenza sull’ordine simbolico della madre e sulla genealogia madre-figlia in cui, mimando nella costruzione della comunità politica un gesto che fa la biologia – cioè quello di legare i rapporti sociali ai corpi e alla produzione di corpi – si rischia di creare delle comunità biologiche.
Il secondo rischio di complicità sta nel fatto che tutta la dimensione dell’etica della cura rischia di essere complice di quella dimensione pastorale del potere (ovvero il potere che si presenta come un potere che fa il nostro bene) che caratterizza la biopolitica. Putino, invece, al posto della donna che segue l’etica della cura, ha in mente quella che lei chiama donna guerriera, ovvero colei che costruisce delle comunità in cui viene messa in atto una rottura con la biopolitica.
Putino però, nella raccolta di testi I corpi di mezzo, ci dice che per pensare queste comunità in maniera diversa dobbiamo cambiare il nostro rapporto col corpo.
Al posto che interpretare il corpo come qualcosa di già dato, che ci troviamo ad avere e che è già avvenuto, dovremmo piuttosto concentrarci sulle possibilità e sulle questioni aperte dal corpo a venire, ovvero cosa ci facciamo e come costruiamo questi corpi sessuati e desideranti.
L’altra riflessione che ci aiuta ad uscire dai rischi della biopolitica è quella del cyborg, che ben si esprime nel famoso slogan “meglio cyborg che dea” (1), in cui il cyborg rappresenta la risposta all’essenzializzazione del corpo femminile che vorrebbe fare di alcune condizioni biologiche (come la maternità) una condizione di valorizzazione. Il cyborg, invece, in quanto corpo composito, diventa una via di fuga.
“Dopo” il cyborg viene un altro modo di pensare il corpo come somatecnica (soma = corpo + téchne = tenica, arte): questa parola viene coniata nel 2004 nel campo dei Transgender Studies e negli Studi di modificazione corporea (ovvero chi studia le persone che scelgono di modificare in qualsiasi modo il loro corpo, dai tatuaggi e piercing alle amputazioni o alle assunzioni di ormoni).
È questo il tentativo di mettere in luce l’inestricabilità del corpo come un costrutto culturale intelligibile e delle tecniche intese come dispositivi: non possiamo pensare i nostri corpi disgiunti dalla dimensione tecnica (e con tecnica si intende “tutto”: dalla pillola anticoncezionale agli occhiali da vista, dai piercing agli antibiotici), ma soprattutto non ci interessa farlo.
Perché è proprio a partire dalla presa di coscienza del fatto che questa unione profonda di soma e téchne è già in atto che possiamo pensare delle strategie di resistenza.
Non si tratta di rinnegare l’immagine del corpo come oggetto già esistente e cartesianamente diviso dalla mente – proprio come l’immagine del corpo politico di Hobbes – sostituendolo con l’essenzialismo del corpo, ovvero l’approccio che cerca “tutta la verità” solamente nel corpo.
Si tratta invece, per la somatecnica, di rinnegare sia la proprietà del proprio corpo (sempre cartesianamente parlando), sia l’inellutabilità del corpo. La proposta della sometecnica è invece quella di vedere il corpo come una situazione, ma anche come una parte di noi che possiamo modificare.
A questo proposito è interessante studiare quei corpi che stanno ai margini della norma: corpi disabili, transgender, o semplicemente considerati “devianti”.
Siamo dunque passati dai corpi invisibili ma sentiti delle donne in gravidanza, a dei corpi nuovamente sentiti ma in cui ci possiamo riappropriare della visione. E, come dice Donna Haraway, abbiamo bisogno di una nuova modalità di visione per poter scardinare quella imperialista fin qui dominante. Per farlo, dobbiamo ripensare lo sguardo non come qualcosa che va alla ricerca della norma, ma che va alla ricerca delle falle e degli inganni. Dobbiamo dunque pensare a una forma di conoscenza che passi anche dalla visione e che ci permetta di recuperare un’obbiettività diversa da quella imperialista, che passi dalla messa in discussione dei rapporti di sapere e potere, da un posizionamento ma anche dalla critica del proprio posizionamento; dunque una visione che è sempre anche auto-visione, senza però bisogno di romanticizzare e attribuire valore alla posizione dei subalterni solo in virtù della loro posizione.
A tutto questo, Putino aggiunge la necessità di smascherare i rapporti di inclusione ed esclusione che sottendono a ogni dimensione biopolitica, riconoscendo quali sono quelli che noi stessi mettiamo in atto, per poter poi costruire nuove comunità.
Dall’altra parte c’è invece chi sostiene che non sia possibile sfruttare la biopolitica senza esserne vittime, e dunque suggerisce di non cedere nemmeno di un millimetro al potere della tecnica – cosa che per altro, secondo Cossutta, non sarebbe possibile ma nemmeno auspicabile dal momento che la tecnica ha i suoi innegabili vantaggi.
Bisogna sempre ricordarsi, però, che la parola tecnica è ovviamente impregnata di un intreccio di razzismo, sessismo, militarismo e imperialismo: tutte caratteristiche negative che informano la sua storia e danno vita alle configurazioni che noi consideriamo come tecnica; ed è per questo che sono necessari modi alternativi di ripensarla. A fronte di quanto detto, la domanda con cui Cossutta chiude il suo intervento è la seguente: è possibile ripensare la tecnica senza ripensare in sé la società? La risposta di Cossutta è no. Ecco dunque perché i modi di riconfigurare la tecnica dovrebbero andare di pari passo con i modi di riconfigurare la società.
(1) Donna Haraway, Manifesto Cyborg (1985)
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